CANNES 67 – Timbuktu, di Abderrahmane Sissako (Concorso)

timbuktuC’è il rischio di un che di retorico nel modo di procedere di Sissako. Ma la retorica è parte necessaria del "sistema processuale" del suo cinema che si muove tra l'ironia e il dolore, ma che non tratta, non media, non fa dialettica. Ogni immagine agisce in opposizione. E la retorica è la tattica, che Sissako utilizza per rigettare le pretese della legge e ribadire altri diritti, il potestativo in luogo del potere

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timbuctuDa Bamako a Timbuctù, Sissako continua ad attraversare l’asse del Mali (e del male?), dal centro nevralgico (malato) della capitale alle mitiche radici tuareg e alle porte dei rivolgimenti contemporanei: le guerre che imperversano nel nord del paese e le pesantissime ingerenze di un fondamentalismo islamico “invasore”.

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L’attualità è d’obbligo, ma, come forse è normale in Africa, è quasi un’eco che si perde in un tempo immobile. E, in effetti, anche per Sissako, pur essendo trascorso quasi un decennio da Bamako, le esigenze non sembrano cambiare: il punto è sempre quello di definire una logica “processuale” del cinema, che stabilisca un contraddittorio, una discussione aperta, critica sui fondamenti delle leggi del potere in nome di una più profonda esigenza di giustizia. In fondo, Timbuktu è un film che poggia per intero sul terreno di frizione tra la norma e il senso, l’imposizione della condotta e la logica della tradizione, l’indifferenza della regola e le ragioni del cuore. E i tanti episodi di vita quotidiana della città occupata, da quelli più piccoli a quelli più tragici, sembrano delineare una dimensione assurda, una specie di bolla del tempo, in cui, a seconda dei punti di vista, il contemporaneo è una tentazione o una necessità naturale, il passato è una fuga cieca o una tradizione vitale. Timbuctù, con le sue case di fango “patrimonio dell’umanità” e fuori dalla storia, è lo scenario perfetto di questa sospensione. E, l’immagine è il terreno fondamentale del conflitto, quello conteso tra la protervia del controllo pubblico e la necessità vitale di uno spazio privato. Le icone vanno frantumate, ma solo per stabilire la preminenza di altri dei. Non dare a vedere più di quanto la regola non ti consenta, ma fatti vedere. L’immagine è la tentazione e la colpa. Il desiderio che si materializza in un miraggio minaccioso, come quel ciuffo d’erba che emerge tra le dune come un monte di Venere.

 

timbuktuL’integralismo, allora, per Sissako non sembra tanto essere la semplice imposizione (pur sempre colonialista) di una norma incomprensibile e l’indifferenza per la posizione altrui, quanto una volontà perversa di liberarsi dal proprio senso di colpa rendendolo “diffuso”, estendendolo a tutto e a tutti. Le comiche debolezze del povero Abdelkrim si trasformano naturalmente nelle perversioni del sistema. E proprio per reagire a queste perversioni, Sissako mette in campo tutta una serie di atti di resistenza, dei personali e intimi movimenti di liberazione “nazionale” di fronte all’invadenza del potere e delle armi. Dalla pescivendola che rifiuta di infilare i guanti perché altrimenti non potrebbe lavorare come si deve, ai ragazzi che inventano una magnifica partita di calcio senza pallone, sfidando l’ennesima proibizione. Fino alla madre che rifiuta ostinatamente di cedere sua figlia all’arrogante proposta di matrimonio di un “bravo e pio” jihadista o alla “strega” folle che attraversa la città non curandosi affatto degli “stronzi” che la governano. Certo, c’è il rischio di un che di didascalico nel modo di procedere di Sissako. Di retorico. Ma la retorica è parte necessaria del sistema processuale. La retorica è tattica, che Sissako utilizza per rigettare le pretese della legge e ribadire altri diritti, il potestativo in luogo del potere. Tra le mura di fango di Timbuctù filma la sua Antigone Tuareg. Il suo cinema si muove tra l’ironia e il dolore, tra le esigenze di uno stile occidentalizzato e diffuso e il richiamo delle radici, dell’iconografia di un altro mondo. Eppure non tratta, non media, non fa dialettica. Quando mostra le lapidazioni non perdona. Ogni sua immagine oppone alla rigida violenza una posizione altrettanto ferma di sublime innocenza. 

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