The Look of Silence, di Joshua Oppenheimer

A distanza di un anno da The Act Of Killing ci ritrovamo catapultati nel cinema implacabile di Oppenheimer. Ma se lì il passato rimosso veniva ri-configurato in un abisso di messe in scena che cortocircuitavano il nostro sguardo, in questo The Look of Silence irrompe la scelta etica di un controcampo. Formidabile mediazione estetica del cinema per sfuggire all’agghiaccainte assuaefazione all’orrore

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Questo è già Storia, è successo davvero”, dice compiaciuto un anziano carnefice mentre ci racconta/mostra i suoi terribili act of killing (dis)sepolti nella memoria. Ci risiamo. A distanza di un anno dall’uscita di quel film ci si ritrova catapultati nel cinema implacabile di Joshua Oppenheimer: ma se lì il passato rimosso veniva ri-configurato consapevolmente in un abisso di messe in scena che cortocircuitavano il nostro sguardo gelandolo nella consapevolezza dell’orrore assoluto; in questo The Look of Silence irrompe da subito la forte scelta etica di un controcampo. Il volto scultoreo di Adi – oculista indonesiano quarantacinquenne, fratello di una delle vittime delle epurazioni del 1965 che erano il soggetto del film precendete – viene costantemente ripreso mentre guarda in tv l’archivio di Oppenheimer, le sue scioccanti interviste fatte negli svariati anni di permanenza in Indonesia. Mentre guarda (gli) Act of Killing raccontati da anziani membri di un'organizzazione paramilitare ai danni di chiunque fosse lontanamente tacciato di comunismo.

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Ecco: Oppenheimer “proietta” sullo sguardo di Adi la tragedia collettiva (e dimenticata) di un popolo, attuando nel frattempo una formidabile ri-articolazione di materiali d’archivio (come veri servizi d’epoca dei media occidentali che gettano ombre inquietanti sulla politica estera al tempo della Guerra Fredda) e incontrando così la memoria nel controcampo di un interessato spettatore (proprio come noi…). Adi fa l’oculista. Cerca di far “guardare meglio” i suoi pazienti che qui coincidono con i carnefici morali di suo fratello. E quest’indagine per far luce sulla singola morte nella tragedia collettiva è giocata proprio in quel sottile confine: il nitore di sguardo che Adi ostinatamente ricerca nell’altro da se. Cambiando continuamente lenti e prospettive. Un faccia a faccia con l’abisso che “è già storia, è successo” ma continua a succedere: perché la convinzione della superiorità morale e acritica porta da sempre all’accettazione dei più barbari atti, è storia, sta accadendo proprio in questo 2014. Oppenheimer riporta a galla una memoria di sconvolgente attualità se confrontata alle recentissime vicende irachene.

E allora: il cuore di questo The Look of Silence sta proprio in quell’ostinato silenzio di Adi. Non certo nelle verità da far “confessare”, perché non c’è veramente nessuno che intenda negarle, sono lì, alla luce del sole e il film precedente le aveva abbondamene (di)mostrate. Dal campo lungo di The Act of Killing, allora, il fuoco si sposta su un primo piano, sul volto scultoreo di un uomo che guarda, riflette e poi interroga senza dare giudizi. Alla ricerca di quell'attimo di silenzio che faccia emergere un sentimento dietro l’orrore, opponendo la sua quieta quotidianità con gli anziani genitori o con la figlia ancora bambina. Insomma una mediazione etica ed estetica che solo il cinema può ancora offrire, concedendo tutto il tempo necessario al meccanismo spontaneo della memoria (individuale e collettiva) e instillando straordinariamente il dubbio lacerante del sentimento per sfuggire all’agghiaccainte assuefazione all’orrore.

Siamo arrivati al film. Al Cinema. Che soprattutto nell’ultima mezz’ora, nel faccia a faccia con la famiglia del vecchio carnefice ormai defunto, è al centro della discussione, lì dentro a sporcarsi le mani nella vana ricerca di un perdono impossibile. Oppenheimer diventa contraente attivo e tirato pericolosamente in ballo, configurando così la complessità insormontabile dei fenomeni che filma e interrogandoci direttamente come individui. Ecco: il lascito più evidente del padrino/produttore Werner Herzog (per altri versi invece lontanissimo dal giovane cinesta) sta proprio in quella sfrontatezza istintiva che mette al centro del cinema il limite stesso dell’agire umano. Un limite indagato con pazienza antropologica (dodici anni passati in Indonesia, a raccogliere testimonianze filmate) conquistandosi faticosi attimi di verità nel fulmineo controcampo etico che presuppone. Oppenheimer, pur non essendo immune da pericolose e discutibili ambiguità (l'insistenza sui dettagli del corpo raggrinzito e dell’anima “smemorata” del padre di Adi), riesce comunque a concepire l’immagine come ricchissima riserva di memoria, testimonianza sempre in fieri, giocando ancora con l’immaginario collettivo (in una maniera molto più rigorosa e nascosta rispetto al film precedente) per far balenare il reale rimosso e perturbante. Un cinema necessario e (auto)riflessivo, che nella sua immane ambizione si sa intelligentemente nascondere in improvvisi disaccordi che spezzano il suo fluire. Come quel fiume che scorre e segna il tempo impassibile della Storia oltre l'orrore. O come quell’impercettibile e improvvisa sfocatura che mette in dubbio lo sguardo vuoto di un carnefice: il cinema, del resto, deve solo aiutare a “guardare meglio”.

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