La metamorfosi del male, di William Brent Bell

la metamorfosi del male
A partire dalla deterritorializzazione dello statuto delle immagini, come percorso da intraprendere per tornare a vedere nell’ambiguità della natura umana un’immagine aperta, e per questo terrorizzante, William Brent Bell si lancia nell’impresa di recupero di quel tema, la licantropia, che, dopo la magnifica stagione inaugurata da John Landis e Joe Dante, l’horror non è più riuscito veramente ad esplorare

 

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la metamorfosi del maleChe l’horror del nuovo millennio, forse stanco di remake pensati a tavolino, dove, eccezione fatta per le (re)visioni di Rob Zombie, delle gloriosi pietre miliari del genere non resta che una pallida ombra opportunamente epurata dal vero orrore, abbia trovato nel found footage una formula, in più casi ottimamente riuscita, per rivedere se stesso, con il mostruoso che si annida proprio nella faccia nascosta del quotidiano, non è più di certo una novità. Piuttosto, nella sua logorante ripetizione, inizia a mostrare i segni del suo esaurimento, tanto da permettere a Scott Derrickson di operare il ribaltamento di quella che è ormai divenuta una formula codificata, realizzando con il suo fondamentale Sinister, una vertiginosa myse en abyme del found footage.

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William Brent Bell, che ne L’altra faccia del diavolo, pur rimanendo impantanato nei suoi limiti, già aveva familiarizzato con il found footage, opera un ulteriore slittamento del discorso e, riprendendo in mano il terreno di riflessione aperto da Barry Levinson, in questo La metamorfosi del male, ingannevole traduzione italiana di Wer, si interroga sulla falsa verità delle immagini. Ma anziché usare il found footage, come aveva fatto The Bay, per puntare lo sguardo verso la menzogna che, quasi fosse un parassita, divora il reale dal suo interno, La metamorfosi del male, ne mette in discussione lo statuto stesso, confutandone la pretesa di verità. Ecco allora che William Brent Bell inizia il suo La metamorfosi del male con un filmino familiare, che, immancabilmente, finisce per registrare l’orrore e che viene usato come prova indiziaria per accusare Talan, l'uomo costretto ai margini della società da quella che suona come una minaccia, la diversità del suo aspetto e del suo comportamento, ma solo per poi smontarne lentamente la veridicità. Per tutta la prima metà del film, difatti, la giovane Kate Moore, l’avvocato che insieme a Eric e Gavin si assume la difesa di Talan, si lancia in una meticolosa indagine che, tra strane scoperte e, soprattutto, la dimostrazione dell'incapacità delle immagini di farsi prova esaustiva, finisce per mettere a repentaglio lo statuto stesso del found footage, in un interessante cortocircuito di senso tra immagini reali e quelle di finzione. E' tra le maglie sottili di questa confusione percettiva, che l’orrore e la violenza iniziano, infine, a manifestarsi, mostrandosi però, in un riflessione di non poco conto, unicamente in quelle immagini, le riprese a circuito chiuso, le televisioni, le telecamere sui caschi della squadra d’assalto che bracca Talan nella sua fuga, la cui dichiarazione di verità viene continuamente messa a repentaglio da Kate e dal suo lavoro di ricerca


Ed è proprio a partire da questa deterritorializzazione del senso dello statuto delle immagini, come percorso necessario che il cinema horror deve intraprendere per tornare a vedere nell’ambiguità della natura umana un’immagine aperta, e per questo davvero terrorizzante, che William Brent Bell si lancia nell'impresa ottimamente giocata di recupero di quel tema, la licantropia, che, dopo la magnifica stagione inaugurata in contemporanea da John Landis e Joe Dante, l’horror non è più stato capace veramente di esplorare, concedendosi solo una manciata di ritorni poco riusciti e qualche contaminazione.
 
 
 
Titolo originale: Wer
Regia: William Brent Bell
Interpreti:  A.J. Cook, Brian Scott O'Connor, Sebastian Roché, Simon Quarterman, Vik Sahay
Distribuzione: Moviemax
Durata: 89’
Origine: USA, 2014
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