Tempi moderni, di Charles Chaplin

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Ultimo lungometraggio girato senza sonoro da Charlie Chaplin lucida riflessione su una società – capitalistica – in trasformazione, dove l’“età meccanica” concepiva mostruose macchine industriali che rendevano l’uomo semplice ingranaggio. In sala dall'8 dicembre nella versione restaurata distribuita dalla Cineteca di Bologna e gruppo Unipol per il ciclo "Al cinema ritrovato. Al cinema".
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tempi moderni_2Ultimo lungometraggio girato senza sonoro da Charlie Chaplin (a parte alcune sequenze iniziali ed una canzone cantata dallo stesso Chaplin verso il finale del film), regista restio a servirsi delle tecniche che la modernità consentiva, tanto che la pellicola utilizzava 18 fotogrammi al secondo anziché 24, dando quella tipica sensazione di immagini velocizzate.

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Su Tempi moderni si è detto e scritto di tutto, lucida riflessione su una società – capitalistica – in trasformazione, dove l’“età meccanica” concepiva mostruose macchine industriali che rendevano l’uomo semplice ingranaggio (mezzo e non fine)  di un sistema in cui  la centralità e l’individualità dell’essere umano venivano eliminate, a favore di una produzione ininterrotta, da catena di montaggio.

Chaplin si discosta da tutto questo, usando il cinema come strumento di ribellione e tale “controrivoluzione industriale” viene evidenziata fin dalla prima sequenza, quando in montaggio alternato viene inquadrato un gregge di pecore e un gruppo di uomini mentre stanno entrando in fabbrica per iniziare il loro turno di lavoro; ebbene in quel gregge si intravede per un istante una pecora nera, chiaro segno di non allineamento in un ordine (pre)costituito, codice di non accettazione all’assimilazione e all’asservimento nei confronti di un potere industriale capace

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di cancellare la “poesia della diversità”. Altri esempi di ribellione nei confronti delle macchine emergono nei momenti in cui Chaplin mette in tilt il funzionamento delle macchine stesse provocando il caos all’interno della fabbrica (l’individuo che grazie alla creatività destabilizza il sistema) o quando viene fagocitato in enormi ingranaggi (metafora di impotenza e smarrimento esistenziale ma anche di come la tecnologia se utilizzata in maniera adeguata possa creare arte: l’immagine si associa infatti  inequivocabilmente al meccanismo del proiettore che fa girare la pellicola).

Il film si caratterizza inoltre per la minuziosa descrizione delle difficoltà incontrate per la sopravvivenza quotidiana (il procacciarsi il cibo, l’estenuante ricerca di un lavoro, l’avere un tetto sulla testa) che si riverberano, infondendo così all’opera un taglio attualissimo, nella nostra contemporaneità. Ma l’impronta, sebbene dolorosa, rimane – grazie anche alle splendide musiche firmate dallo stesso Chaplin con adattamenti di Alfred Newman –  poetica e aggraziata; l’ottimismo e l’amore per la vita non vengono scalfiti e anzi paiono rafforzarsi di fronte alle avversità, così come la solitudine del protagonista giunge alla conclusione: se infatti nelle sequenze finali delle opere precedenti, Charlot si incamminava da solo verso l’orizzonte misterioso ed inesplorato, qui troviamo per la prima volta al suo fianco una donna (Paulette Goddard) che lo accompagna verso l’ignoto; tale inquadratura finale può essere interpretata come sorta di dichiarazione d’amore e di “riconoscimento ufficiale” verso la donna che per dieci anni è stata la compagna di Chaplin nella vita reale.

 

Titolo originale: Modern Times

Regia: Charles Chaplin

Interpreti: Charles Chaplin, Paulette Goddard, Stanley J. Sanford, Henry Bergman, Chester Conklin

Distribuzione: Cineteca di Bologna e gruppo Unipol

Durata: 87'

Origine: Usa, 1936

 

 

 

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