Goltzius and the Pelican Company, di Peter Greenaway

Goltzius and the Pelican Company

Il corpo degli attori pervade l'inquadratura, la riempie di sé, rendendo l'immagine carnale e richiamando il contesto della performance. Ogni atto o singolo gesto si fa spettacolo, a cavallo tra la danza, come già in L'ultima tempesta, e la semplice espressività, quasi un happening erotico che fa emergere la cifra tutta (post-)postmoderna dell'operazione del regista. Dal 20 gennaio in poche sale selezionate come evento speciale

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Goltzius and the Pelican CompanyUn'immagine polimorfa è quella che Peter Greenaway presenta in Goltzius and the Pelican Company, secondo capitolo di una trilogia dedicata ad artisti fiamminghi dopo Nightwatching, che prosegue il percorso del regista inglese in un cinema sempre più contiguo alla videoarte. L'immagine non viene qui intesa semplicemente come immagine cinematografica, una traccia sul fotogramma di ciò che è stato davanti alla macchina da presa. Partendo dalla vicenda di Hendrik Goltzius, illustratore e stampatore alla corte del Margravio di Alsazia (un deliziosamente mellifluo F. Murray Abraham), Greenaway riflette nuovamente sullo statuto dell'immagine grazie alle possibilità offerte dal digitale. Il singolo frame allora si stratifica, andando a sovrapporre illustrazioni bibliche, famose immagini pittoriche, da Dürer a Bosch, linguaggio verbale che appare in sovrimpressione sullo schermo, uniti alla fisicità delle pagine dei libri, da cui prendono vita le sei storie sui tabù sessuali del Vecchio Testamento, ma soprattutto alla materialità dei corpi di chi li mette in scena, ricreando spesso composizioni che rimandano proprio alle fonti pittoriche.

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Il corpo degli attori pervade l'inquadratura, la riempie di sé, rendendo l'immagine carnale e richiamando il contesto della performance. Ogni atto o singolo gesto si fa spettacolo, a cavallo tra la danza, come già in L'ultima tempesta, e la semplice espressività, quasi un happening erotico che fa emergere la cifra tutta (post-)postmoderna dell'operazione del regista. Un pastiche, come giustamente si potrebbe definire quest'opera, il cui mescolarsi dei linguaggi si riflette anche nel sovrapporsi, senza alcuna continuità spazio-temporale, del contesto cinquecentesco dello spettacolo di corte inserito all'interno di un paesaggio industriale abbandonato e decadente. La sfarzosità della festa organizzata per il Margravio, dei costumi e delle immagini rievocate contrasta fortemente con lo spazio vuoto della fabbrica abbandonata, le sue linee rette e il bianco delle pareti che si fanno luogo altro grazie alla performance o anche solo alla semplice presenza di quei corpi che riempiono il quadro. Un accostamento paradossale, che però Greenaway riesce ad armonizzare, anche grazie alle musiche che accostano le armonie tipicamente barocche a suoni contemporanei di sottofondo. L'immagine allora sfonda le “pareti” del cinema e va oltre, si fa palinsesto, veicolando tutta la decadenza (morale) della non-storia, messa in scena secondo uno stile inconfondibilmente greenawaiano. O siamo di fronte alla fine del cinema come lo conoscevamo o alla sua evoluzione.
 

Titolo originale: id.

Regia: Peter Greenaway

Interpreti: F. M. Abraham, Flavio Parenti, Vincent Riotta, Halina Rejin

Origine: UK, Francia, Croazia, Paesi Bassi, 2012

Distribuzione: Lo Scrittoio e Maremosso

Durata: 112'

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