BERLINALE 65 – Le dos rouge, di Antoine Barraud (Forum)


Il primo dato affascinante di Le dos rouge è proprio questo slittamento tra la forma del film-saggio su Bonello e l’autoportrait d’auteur esercitato da Barraud. … Il plot discorre attorno all’ossessione del regista Bonello per la mostruosità: deve girare il suo nuovo film ed è alla ricerca di un confronto con la figura del mostro

 

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Con la mostruosità Antoine Barraud lavora da sempre, cercando la distanza che separa se stessi dalla copia deforme della propria realtà.
E‘ una ricerca che si muove nello specchio della propria percezione di se stesso come corpo artistico, difendendola dall’attacco della banale somiglianza tra vita ed essere.
La numerazione della serie dei suoi cortometraggi Monstre si ferma a due (in realtà sono tre…), ma Le dos rouge ne è la definizione estrema: si tratta di un film a lungo covato, realizzato nell’arco di quattro anni addosso al sembiante registico alternativo offerto da Bertrand Bonello, interprete più o meno di se stesso in un film che Barraud fa su di sé e, allo stesso tempo, su di lui. Il primo dato affascinante di Le dos rouge è proprio questo slittamento tra la forma del film-saggio su Bonello e l’autoportrait d’auteur esercitato da Barraud senza che la materia prenda davvero mai forma in una maniera o nell’altra, ma resti fluttuante, magmatica, più percettiva che razionale. La mostruosità del film è anche questa, l’insistente percezione di un’opera che parla due lingue e disperde il suo protagonista tra un soggetto e un oggetto che bascula dall’autore all’interprete…

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Il plot discorre attorno all’ossessione del regista Bonello per la mostruosità: deve girare il suo nuovo film ed è alla ricerca di un confronto con la figura del mostro, con il tema della mostruosità. Per farsi ispirare si affida a Célia, una enigmanita storica dell’arte che lo accompagna per musei, in un raffronto continuo con opere che spesso nulla hanno a che fare con la mostruosità, se non quella che l’occhio che guarda deve trovare dentro di esse.
Intanto il regista Bonello vede crescere sulla sua schiena una grande macchia rossa che ne deturpa la pelle, dislocando il discorso dalla teratologia interiore a quella epidermica, come in un passaggio implicito dalla percezione del dipinto a quella della tela. E progressivamente Barraud lascia scorrere il film dal reiterato confronto frontale con i quadri che il suo protagonista insegue di museo in museo, all’intrusione psicologica in un delirio ossessivo che si spinge nella profondità prospettica di quei corridoi in cui Célia è portata a scomparire.

E, come accadeva in Les goufres, Barraud lascia che la realtà si sdoppi, mentre la mostruosità diviene duplicità, l’originale si assomma alla copia in personaggi che sono multipli in se stessi e nel loro stesso corpo. Sicché Célia d’improvviso assume un altro aspetto, ma è sempre lei stessa, mentre il regista Bonello diviene protagonista di una progressiva sparizione nella mostruisità della macchia che invade la sua schiena sempre più e disloca se stesso nell’ombra spettrale di uno specchio offertogli dall’inquietante autoritratto del simbolista belga Léon Spilliaert…

Punto di arrivo di un film intriso di inapparente soggettività, intimamente disperso nella ricerca di se stesso, seguendo un percorso che Barraud ha intrapreso ormai da sempre, a partire dal suo primo lungomentraggio, Song.

 

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