Life itself, di Steve James


Roger Ebert. La gavetta, le prime recensioni, l'incredibile vittoria del premio Pulitzer, la rivalità/amicizia con Siskel, lo sconfinato amore per il cinema: in Life itself tutto cade sotto l'ombra della malattia che logora un fantasma già uscito di scena, violentemente riesumato in un film più interessato alla morte che alla vita

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Roger Ebert è sicuramente una delle figure chiave della critica cinematografica americana. Pochi come lui hanno saputo allineare l'emozione della visione cinematografica all'esperienza critica . Autore dallo stile secco, asciutto ed essenziale ma tremendamente descrittivo allo stesso tempo, capace di incontrare il gusto del pubblico nelle tempistiche di assimilazione e fruizione. Siano le stelline dei suoi lavori scritti o i pollici in su del suo programma televisivo, il cuore delle sue recensioni risiedeva in questa estrema condensazione simbolica, in un saper riportare in un comoda scala di valori (relativa) una produzione cinematografica.

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E Life itself, diretto dall'amico Steve James, si pone l'importante compito di raccontare in un film la vita di chi i film li ha sempre raccontati. A fronte di una produzione sterminata le immagini di repertorio si sposano perfettamente con frequenti estratti delle recensioni del critico, piccole frasi che si stagliano sullo schermo facendo intuire il suo stile inconfondibile. Scorre così la storia di Roger Ebert, self made man di umili origini, scrittore instancabile che non rinuncerà mai al suo ruolo di “film critic” del Chicago Sun-Times. Determinazione che lo porterà a vincere il primo Premio Pulitzer per la critica cinematografica e ad essere inserito nella Hollywood Walk of Fame. Il coinvolgimento di Roger Ebert nel mondo del cinema insomma era tale da influenzare direttamente il contesto hollywoodiano, divenendo parte integrante di esso.

 

Ed è per questo che gran parte di Life itself si ferma sull'esperienza televisiva che l'autore da metà degli anni 70 intraprese con il collega, amico e rivale Gene Siskel. Sneak Previews prima e At the movies dopo, sono effettivamente i tentativi più riusciti (sempre nell'ottica della diffusione e massificazione) di critica cinematografica attraverso le immagini. Testimonianze di personaggi del calibro di Martin Scorsese non fanno altro che confermare il grandissimo impatto che la figura di Ebert ebbe nel mondo del cinema americano: una critica formativa ed edificante, non solo per il lettore/spettatore ma anche per i registi e per il cinema stesso.
 

Tralasciando che, al di là dei risultati ottenuti nella carriera, poco viene spiegato della sua visione del cinema (episodi come la stroncatura di Blue velvet o la diatriba con Siskel su Full metal jacket potevano occupare uno spazio maggiore), il vero problema di Life itself è il voler rimanere a tutti i costi ancorato alla fine della vita di Ebert, punto di vista che vizia la narrazione. Il mostrare costantemente la malattia che ha costretto costretto Roger Ebert, ormai incapace di parlare e di cibarsi autonomamente, a ritirarsi dalle apparizioni pubbliche (ma che non ha mai fermato la sua voglia di scrivere) è un'operazione amara, a tratti grottesca. La sensazione è quella di trovarsi di fronte ad un fantasma uscito di scena riesumato violentemente per raccontare un capitolo che dovrebbe essere un epilogo solo alluso, e non parte centrale di una storia.

 

E se per rendere giustizia ad Ebert bisognasse scegliere una sola immagine, un'unica situazione in grado di descriverlo completamente, ad un Roger Ebert dilaniato dalla malattia in attesa di morire, il cuore non può che preferire l'energico presentatore televisivo, in grado di arrabbiarsi e litigare con la sua spalla Siskel per l'ultimo ed imprescindibile film, capace di andare su tutte le furie per difendere l'unica cosa che conta veramente: il cinema, purché se ne parli.

 

Titolo originale: Id
Regia: Steve James
Interpreti: Roger Ebert, Martin Scorsese, Werner Herzog,
Distribuzione: I Wonder Pictures
Durata: 115'
Origine: USA, 2014

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