Il respiro del cinema: un ricordo per Manoel De Oliveira

Manoel de Oliveira

Aldilà dei suoi 106 anni, la longevità sembrava l'unica conseguenza logica di un modo di fare cinema che si è sempre confrontato con l'eterno. Nelle sue inquadrature, quasi sempre fisse, ma comunque animate da un movimento interno inarrestabile, sembrano convivere secoli differenti, respiri millenari tenuti insieme dalla dolcezza della lingua portoghese e dalla morbida luce che hanno dato fiato a questo folle amor di perdizione per la vita (e, di conseguenza, per il cinema).

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Filmare è come respirare. Lo ripeteva spesso, e avere la consapevolezza che il suo respiro è ora spento sembra forse una delle cose più difficili e inaspettate. Sono tante le morti che ogni anno sottraggono al mondo del cinema i suoi abitanti, ma quella di Manoel de Oliveira sembrava davvero, paradossalmente, impossibile. Si aveva quasi la certezza che, in un modo o nell’altro, sarebbe sopravvissuto a chiunque, immortale come il cinema.

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Aldilà della sua età, 106 anni raggiunti con una lucidità invidiabile (basti vedere il numero di film girati dopo aver raggiunto gli ottant’anni), la sua longevità sembrava l’unica conseguenza logica di un modo di fare cinema che si è sempre confrontato con l’eterno. Nelle sue inquadrature, quasi sempre fisse, ma comunque animate da un movimento interno inarrestabile, sembrano convivere secoli differenti, respiri millenari tenuti insieme dalla dolcezza della lingua (o dell’anima) portoghese, e dalla morbida luce che non illumina, ma dona vita ai colori che inondano il set. Della sua filmografia, vasta, non enorme, ma comunque sconfinata e proiettata in innumerevoli direzioni, la maggior parte dei titoli prendono vita dalle pagine dei libri (dai maestri della letteratura portoghese come Camilo Castelo Branco, José Régio, la contemporanea Agustina Bessa-Luís, ma passando anche per Paul Claudel, Dostoevskij, Antonio Vieira, Beckett, la Bibbia e infiniti altri ancora) – non è un caso, allora, che la devastante immagine (la cui potenza acquista ora un significato ancor più cupo) ad aprire O Velho do Restelo, il suo ultimo piccolo capolavoro, sia un libro le cui pagine si gonfiano d’acqua, mentre galleggia inghiottito dalle onde nere del mare. La stessa immersione a cui volentieri ci siamo sottoposti per anni, e che non si fermerà per molto altro tempo ancora.

 

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O Velho do ResteloSi potrebbero elencare i numerosi esiti di una carriera lunga ottant’anni. Ma una manciata di nomi non può rendere giustizia a chi, soprattutto, ha avuto l’audacia di porre davanti allo spettatore il cinema nel suo farsi più evidente, artificioso e naturale al tempo stesso. Un regista che ha saputo prendersi il tempo necessario per dispiegare la sua idea di cinema, mutata nel tempo ma sempre fedele a se stessa. Sono le opere più imponenti e ambiziose a essere anche quelle più memorabili, dove il tempo non si dà come frammento, ma come interezza, come tutto: Francisca, Le soulier de satin, Amor de perdição, La valle del peccato – (non)film dove il rapporto cinema/vita (cinema come vita, cinema come tutto) è colto nel travalicare il confine teatrale/letterario, così evidente e così labile, mai rivolto in se stesso, ma pronto a penetrare nelle infinite ricerche del pensare umano, non con agitazione e fervore, ma con una pacata tranquillità, dietro cui si celavano abissi. È questa capacità di de Oliveira di galleggiare nel tempo, in rappresentazioni dove la nozione di passato o presente perde significato, a far sì che ogni elemento davanti (e oltre) la macchina da presa giochi un’importanza fondamentale: in essi, la parola non ha mai ceduto la sua importanza all’immagine o viceversa, ma entrambe hanno trovato il modo di dilatarsi, estendersi e reclamare il proprio ruolo – resta solo allo spettatore la volontà di lasciarsi ingoiare da questo magma così dolce, da questo folle amor di perdizione per la vita.

 

 

Manoel de OliveiraL’impressione è che de Oliveira abbia sempre avuto a che fare con un personalissimo cinema, sempre in qualche modo uguale a sé stesso, sempre vicino al grado zero del filmare: nervo scoperto, cuore palpitante visibile attraverso una ferita profonda, e allo stesso tempo avvolto in innumerevoli strati di tessuti colorati. Soprattutto nei suoi ultimi, brevi lavori, il regista aveva raggiunto una leggerezza intraducibile a parole (penso ai minuscoli Do Visível ao Invisível o Conquistador Conquistado, fino ovviamente a O Velho do Restelo, girato per necessità nel giardino di casa sua, ma che raggiunge ugualmente uno sguardo che oltrepassa ogni orizzonte), in cui si condensa in pochi minuti l’enorme peso e durata dei film precedenti, senza nulla perdere della loro imponenza. Un cinema sempre più sottile, rarefatto, ma che per questo si insinua meglio tra le pieghe di un respiro.

 

Ad aprire il suo, già citato, ultimo lavoro, sono le bocche della Chafariz das Virtudes, la fontana delle virtù, della sua nativa Porto. La fontana, le cui bocche sono rimaste asciutte per decenni, è stata riportata in vita esclusivamente per essere oggetto di ripresa. È forse questa, nella sua immensa semplicità, la più limpida dimostrazione del respirare del cinema, del tornare alla vita come un ombra su uno schermo, uno spazio e un tempo tradotti in un sottile strato di pelle o una manciata di numeri, ma che restituiscono l’ampio respiro di un secolo intero. Il regista ha isolato quest’immagine, regalandola alla Viennale come trailer della scorsa edizione del Festival, rendendo effettivamente questo inizio una fine.
L’ultima, bellissima, immagine che de Oliveira ci ha regalato è quindi questo lento sibilo d’acqua, che dura un minuto ma parla per un’eternità. Anche le pietre si fanno morbide con il tempo. Sintesi perfetta di infiniti metri di pellicola entro cui abbiamo avvolto i nostri occhi in estasi, questi sottili rivoli d’acqua sono come due infinite lacrime che penetrano sottoterra, dove comunque la vita germoglia ancora.

 

 

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