DEL DESTINO… E DELL'UOMO di Rita Rossella

Il destino come susseguirsi di eventi predeterminato da una forza superiore alla volontà umana?
O l'uomo come essere consapevole di dover rispondere degli effetti delle proprie azioni?
Un percorso per esplorare come il cinema ha provato a rispondere

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In Vivre sa vie (1), di Jean Luc Godard, Nanà fa
della filosofia senza saperlo (2) e parla del concetto di responsabilitá dell'uomo nelle proprie azioni e nel proprio destino, esprimendolo attraverso la sua vicenda esistenziale. In molti e diversi modi siamo responsabili di ciò che ci accade e delle scelte che facciamo… Lo sa bene Nanà come lo sa Bess, protagonista di Breaking the waves (3) di Lars Von Trier, che offre per l'uomo che ama prima il proprio corpo prima e poi la propria vita, in un attimo di supremo sacrificio che si oppone alla morte. Al limite tra follia, forza morale e religione.
Il destino è un concetto presente e fondamentale sia che si chiami Fato (come nelle tragedie greche) sia che sia personificato da Dio, deus ex machina dell'umanità…
Il Fato regola spietatamente le vite umane: per tentare di opporsi non sacrifica se stessa, Medea, sacrifica invece i propri figli, come Julia, donna sconvolta, tradita e abbandonata dal suo uomo. Non si arrende, è lacerata nell'animo e il suo è un estremo, dolente atto di distruzione, un grido che prova a fermare il Destino che invece inesorabilmente procede… Asì es la vida (4) di Arturo Ripstein.
Ma il cinema ha presentato anche chi vuole rifiutare la missione che in nome di Dio e della sua religione il mondo intero gli avrebbe riconosciuto. È The last temptation of Christ (5), di Martin Scorsese, in cui l'estremo desiderio di salvezza è soprattutto atto estremamente umano…

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Perché destino?
"Alzo una mano, sono responsabile. Chiudo gli occhi, sono responsabile. Fumo, sono responsabile…"
"Siamo sempre responsabili di ciò che facciamo, e liberi."
Nanà in Vivre sa Vie

Perché parlare di destino… In Vivre sa vie Nanà è una giovane commessa che diventa una professionista del marciapiede. Ha anche un protettore, Raul, che, oltre a darle istruzioni e porle divieti, la vende. Ma l’acquirente non è d’accordo sul prezzo, ne nasce un alterco, seguito da una sparatoria nella quale Nanà rimane ferita a morte e abbandonata sulla strada.
Quarto lungometraggio di Godard, il terzo con Anna Karina, è l’opera più adulta del primo periodo di Godard e forse la sua opera migliore, quella in cui le invenzioni e le sperimentazioni appaiono più congeniali e integrate a un progetto che non è soltanto cinematografico.

I 12 quadri – nei quali Nanà vive la sua vita, rivelandone casuali frammenti – hanno registri diversi, sociologico, documentario, letterario, anche cinematografico: Nanà al cinema piange vedendo la morte della Giovanna d’Arco di Dreyer.

Hanno anche linguaggi diversi, non sono uniti da una logica narrativa, ma solo giustapposti, forse ricombinabili in altro modo: “vivere la propria vita”, accettarla com’è, mostrarla nella sua mescolanza di verità e finzione (rappresentazione), ma anche aiutarne una comprensione, aprire a un possibile giudizio.

Il tema della prostituzione diventa centrale, insieme alla donna. Lo spunto è quello di un’inchiesta giornalistica (Où est ne avec la prostitution? di Marcel Sacotte) ma le domande e le risposte vere vengono da ben più lontano, come rivela la citazione da Montaigne che apre il film: "Bisogna prestarsi agli altri e donarsi a se stessi”.

Nana è assillata dal problema dei soldi, per questo entra nel giro degli alberghi a ore. Ma non ha rimpianti, entra in questa nuova dimensione senza cedimenti, se non una iniziale esitazione, ferma com'è nella sua convinzione che ognuno è profondamente responsabile di ciò che gli accade. Il suo pensiero costante va alla responsabilità di ognuno per le proprie azioni e all'incapacità delle parole di descrivere e comunicare realmente i pensieri.
La responsabilità individuale è dunque la costante del film.
Un distaccato rigore domina tutto.

Importantissimi i mezzi tecnici di cui Godard si serve e gli stratagemmi stilistici: il piano sequenza, la presa diretta del suono, sequenze montate a blocchi senza missaggio, uso della didascalia per annunciare un blocco come sperimentazione dell'introduzione della parola scritta e come citazione e tributo al cinema muto (insieme alla citazione della sequenza del film di Dreyer) e introduzione di brani letti dagli attori che accentuano l'effetto di straniamento.

Un'opera che è un ritratto femminile in 12 quadri: una obiettiva registrazione di eventi (non spiegati) che ricorda Apollinaire quando compilava liste di nomi ed estratti di conversazione e che segna un netto abbandono della figura del regista com'era stata cristallizzata da Melies (il magico signore dell'immaginazione).

Ha le sembianze di un documento, è l'emblema della razionalità, con al centro non un'eroina cinica e nichilista per convinzione ma una giovane donna che è il prodotto di una società alienante e spietata, nella quale i valori non hanno più alcun senso. 12 quadri di una tragedia brechtiana, cronaca nuda della consapevole vita e della conseguente morte di questa donna. Un documento senza vie di fuga, un modo di rappresentare la vita che riduce al minimo la presenza di un deus ex machina e una vita rappresentata che lo esclude, nemmeno lo contempla…
Perché Dio?
“Se io muoio è perché l’amore non può tenermi in vita”
Ian in Breaking the waves

Ancora una tragedia, ancora una suddivisione in quadri, ancora una donna che sceglie la via della prostituzione. Molto diversi i tempi e i luoghi, due parti di mondo lontanissime tra loro, soprattutto per la cultura e lo stile di vita che le anima. Diversa la molla che genera il meccanismo tragico e soprattutto diversi i modi della regia. Breaking the waves, perché parlare di Dio…

Situato all’inizio degli anni ’70, scandito in un prologo, sei capitoli e un epilogo, con otto quadri digitalizzati di paesaggi naturali rielaborati e animati al computer, appoggiato alla musica rock di quegli anni, Breaking the waves (questo il titolo originale di Le onde del destino) è un melodramma ambientato in una piccola, isolata, comunità teocratica di cupa fede calvinista oppressa dall'incombere di una Chiesa simbolicamente priva di campane. È la storia di una giovane scozzese, Bess, e della sua breve felicità coniugale con Ian, un operaio che, in seguito a un incidente sul lavoro, rimane paralizzato e impotente. Su assurda (per noi) richiesta del marito, Bess frequenta altri uomini, con cui ha rapporti sempre più degradanti, che poi racconta a Ian per farlo restare in vita. Lei ne muore, lui guarisce.

Sin da quando Ian le chiede il sacrificio, Bess spera in un miracolo parlando di continuo con l'altra parte di sé, che non è il Dio della sua comunità, è un'entità che le dà la forza di andare avanti e che la sorregge in questo suo delirante proposito. Tutti la considerano una pazza, vedono nel suo tentativo disperato un gesto di assoluta depravazione e del tutto contrario alla loro religione, niente di più lontano da essa.

È il paesaggio interiore di Bess quello che noi vediamo rappresentato nel film da Lars Von Trier, che ritmando la vicenda in capitoli, girando in cinemascope con la macchina a mano manovrata da Robby Muller, ricorrendo all'elettronica lo crea e lo dilata, lo fa uscire dallo schermo per entrare nell'animo di chi osserva il film.

Un paesaggio interiore ed esterno ammirevole, emozionante, affascinante. Crea delle immagini struggenti del raggelante paesaggio dell’isola di Skye, senza luci o effetti artificiali, con la macchina da presa mossa a mano, immagini che nei momenti di maggiore vitalità ondeggiano, sfuocano, quasi partecipando anch’esse emotivamente, rendendo pienamente la psicologia traballante di personaggi apparentemente semplici che, con ostinazione e fermezza, si avviano verso un'evoluzione inattesa. Von Trier spinge la mdp a "rubare" sia il respiro di ambienti disperati (una piattaforma sul mare, una scogliera, un interno di chiesa, ecc.) che i sussulti, gli spasmi di figure narrative parecchio complesse.

La più complessa e dirompente è Bess che raggiunge il punto di rottura delle coscienze davanti al mistero. Il suo è un viaggio verso il luogo dove si infrangono le onde mostrato da un regista che manifesta nello stile il tormento
dell’anima. Bess è piena dì una fede limpida e innocente e parla con voce infantile a un dio, che non ha nome e che non viene mai nominato e con voce grave si risponde come se fosse il dio buono del suo cuore a farlo. Lei sa che i miracoli accadono, Ian guarirà. Lui le dice: “Se io muoio è perché l’amore non può tenermi in vita”. La comunità religiosa la caccia dalla chiesa, i bambini le gettano sassi, la madre la ripudia.

Ma lei ha la fede dell’irragionevolezza, della bontà, della forza morale, nel suo Dio e nell’amore, sa che il suo sacrificio estremo sarà ricompensato.

Si ritrova a combattere contro tutto e tutti, contro la religione della sua comunità, contro la sua famiglia, contro tutte le persone che, come il paesaggio, nascondono dentro di sé freddo e desolazione. La ragazza "naturalmente buona" sostituisce d'istinto a una religione oppressiva e repressiva una religiosità personale severa ma comprensiva, dialoga direttamente con Dio prestandogli la propria voce… E alla
fine il miracolo avviene.
Breaking The Waves significa proprio
infrangere le onde, la migliore immagine del destino. Contro ogni previsione razionale, il sacrificio della donna segnerà la guarigione di Ian. Può sembrare una storia di ordinaria pazzia, il profilo di una peccatrice "immatura e isterica" come la definisce un documento legale. Ma noi le siamo dentro e viviamo con lei ogni momento: l'attesa irrequieta del matrimonio, la felicità incredula per la scoperta del corpo di Ian, l'insaziabilità del desiderio e la durezza della separazione, la speranza caparbia e cieca di fronte alla malattia, l'ingenuità dei dialoghi con Dio, la degradazione del corpo, lo smarrimento di fronte all'odio moralistico che la espelle dalla chiesa, infine il sospetto d'aver sbagliato, primo e ultimo emergere di consapevolezza…

Von Trier guarda al di là dell'evidenza e di ogni norma e cerca il manifestarsi della grazia nelle pieghe della quotidianità, scoprendo la sacralità e le dimensioni drammatiche della vita, non più tragicamente governata dal fato e dalla necessità, ma aperta alle possibilità del desiderio e alle attese di salvezza.
E' una scoperta dirompente, come indica il titolo del film, che è sintesi contenutistica e allo stesso tempo suggestiva dichiarazione di poetica. Non è un caso, dunque, la scelta dei luoghi in cui si svolge la vicenda: che sia la costa scozzese dove vive Bess, o la piattaforma petrolifera dove il marito Ian lavora, o ancora la nave su cui si consuma il
percorso sacrificale dell'eroina, in ogni caso si tratta di elementi contro cui si infrangono le onde del mare. Ma ciò che rompe le onde per antonomasia è lo scoglio, cioè etimologicamente e biblicamente, lo "scandalo" che Bess rappresenta agli occhi della Chiesa.

Una scelta drammatica, illogica, ma piena di grazia. E perciò, alla fine, sono le onde sonore di (in)esistenti, ma tanto desiderate campane a rompere il silenzio della morte, annunciando la paradossale legge del miracolo che è dei Vangeli ma anche di tante favole…

Il Fato…
"Per gli amori finiti non c'è niente da fare…"
"Siamo venuti per dirti che è inutile piangere, contro il destino non c'è niente da fare"
I mariachi (il 'Coro') in Asì es la vida

Frenare non sa l’ira Medea, come l’amore.
Se amore ed ira insieme son fusi, che avverrà?
(Medea, Lucio Anneo Seneca)
Julia è una giovane donna. Il marito Nicolas
decide di lasciarla per un’altra, Rachel. Hanno due figli, che rimangono l’unico bene su cui Julia può contare. Ma lei non si rassegna, non riesce ad accettare di dover rinunciare alla sua felicità, al suo uomo, alla sua casa. Aveva sacrificato tutto per Nicolas, ora per lei rimane solo la disperazione del tradimento e della solitudine che le si apre davanti. Le rimane vicina Adela, donna non più giovane, anche lei vittima di una vita che le ha dato solo dolore.

Asì es la vida di Arturo Ripstein è una riproposizione della tragedia greca Medea, ambientata però nel Messico dei nostri giorni, nel chiuso di un cortile su cui si affacciano le stanze desolate, sporche e povere in cui abita un’umanità abietta e degradata. Opera dura, rinchiusa in uno spazio soffocante, spietata, ma costantemente ironica, girata interamente in digitale, a bassissimo costo e riversata poi in pellicola da 35 mm.

Gli ambienti sono costituiti da poche, ricorrenti e claustrofobiche stanze dai soffitti bassissimi (che spesso vediamo inquadrati, come non accade solitamente al cinema). Un personale universo rappresentativo in cui Ripstein, dopo essersi confrontato con altri/alti modelli letterari assorbe una tragedia classica come la Medea di Seneca (non quella di Euripide) e la ricrea con personaggi estremi e deformi, non solo fisicamente, che il Destino (una divinità traditrice? O solo un uomo…) conduce inevitabilmente a distruggere e a distruggersi. Nella visione delle vite di questi personaggi quasi manca il fiato. Sono chiusi in spazi che li schiacciano, e osservandoli manca il respiro di fronte a tanta miseria, a tanto dolore, a tanta violenza e sangue. Sembra davvero di sentirlo il puzzo di quegli ambienti.
Accresciuto dalla macchina da presa sempre a mano, dalle inquadrature sgranate e mosse, dai colori cupi, e dalla fotografia sporca. La luce che filtra dall’esterno del portone del caseggiato (non dal cielo, carico di pioggia) lascia solo intuire uno spazio di fuga, una possibilità di essere diversi da ciò che si è all’interno. In questa tragedia della miseria, coloro che per primi cedono alle debolezze umane finiscono col soccombere o con l’impazzire, schiacciati dal cinismo e dall’arroganza che per altri compagni di sventura sono semplicemente l’unico mezzo di sopravvivenza.

Asì es la vida è duro e atroce. È frazionato in una serie di quadri, tutti risolti in piani sequenza più o meno lunghi, che si concludono con dissolvenze in nero. I personaggi sono fortemente caratterizzati. I toni sono spesso vicini al paradosso, con il gruppo di musicanti che prima dalla televisione, poi comparendo in scena, riprende e punteggia, proprio come il coro delle tragedie greche, l’intera vicenda.

I personaggi spesso guardano in macchina, ci chiedono comprensione e aprono a noi il loro universo lacerato. Il mezzo stesso, la macchina da presa si svela, inizialmente come anonima ma sensibile presenza che spia Nicolas e la giovane Rachel, poi ancora più esplicitamente, con Ripstein e il suo operatore che si lasciano vedere in uno dei tanti specchi presenti nel film. Uomini e donne interagiscono con la macchina da presa, e un’attenta e studiata disposizione di specchi e schermi televisivi ci mostra anche ciò che si vorrebbe nascondere.

C’è qualcosa, e qualcuno, (il deus ex machina della rappresentazione e della vita) che costruisce per noi questo teatro efferato e crudele. Julia si dibatte e si distrugge in un grottesco e frustrante tentativo di affermare una dignità che mai nessuno le ha riconosciuto.

Un grido disperato, una risoluzione finale che è l’estremo tentativo di chi non vuole arrendersi al proprio destino. Ripstein trasforma l'evento comune prima in un melodramma sovraccarico e debordante in ogni aspetto, poi attraverso i suoi personaggi, prigionieri della loro stessa abiezione, incapaci di sfuggire al destino incombente, chiude il cerchio e torna alla pura tragedia.

Il Cristo…
“Voglio essere il Messia”
Gesù in The last temptation of Christ

Impossibile non parlare di The last temptation of Christ parlando della dialettica tra destino e libero arbitrio. Scorsese mette in scena infatti la vita di un uomo che tenta di opporsi alla scoperta della propria divinità, che avrebbe potuto vivere una vita comune, ma è costretto ad accettare la missione di salvezza per il mondo intero, ubbidendo a Dio padre.
Quel Padre che governa su tutti e tutto, nelle mani del quale Giuda, il primo, il più intelligente e appassionato dei seguaci di Gesù, diventa il Traditore e Maria Maddalena, davanti al rifiuto di amarla, diventa la Prostituta.

Importante e impegnativa opera, The last temptation of Christ è stato a lungo condannato e censurato dalla religione cattolica tradizionale. Ma il Gesù di Scorsese, oltre a essere un tentativo di rappresentare Gesù come potrebbero vederlo uomini di cultura diversa da quella europea-occidentale, ha uno spessore teologico davvero immenso, capace com'è di trasmettere le paure del suo essere umano e l'estremo divino coraggio nel seguire, infine, il disegno del Padre.

È inevitabile nel cinema di Martin Scorsese il riferimento all'educazione religiosa e alle grandi tematiche che lo affascinano e lo ossessionano sin dalle prime opere.
Alla libertà formale (l’imprevedibile associazione tra musica e immagine, la disinvoltura dei raccordi, la varietà di piani e movimenti di macchina) Scorsese associa contenuti fortemente autobiografici e al tempo stesso simbolici, metaforici, tra i quali la religione, la predestinazione, la Missione, hanno un posto di primo piano.

E il sangue fa parte integrante di una cultura cattolica come quella di Scorsese, dove le immagini cruente – dal Sacro Cuore alla Crocifissione – costituiscono la massima espressione di pathos, l’evidenza che Dio ha sofferto ed è morto per la salvezza dell’uomo.

La morte nel cinema di Scorsese ha sempre avuto una concretezza sanguinosa: se Cristo ha versato il suo sangue per ogni peccatore, ogni peccatore che muore fa ripetere la morte di Cristo. Il senso della terribilità della morte, a un tempo massimo evento sacrale e culmine della sconsacrazione della vita, dell’uomo abbandonato da Dio, viene qui messo in scena in tutta la sua consistenza tragica e incomprensibile…

E in questa poetica dell’incarnazione (come potremmo definire tutto il cinema di Scorsese) il sangue scorre “veramente”. Il suo Gesù la interpreta alla lettera. Nella teologia cattolica si parla di presenza reale del Cristo nell’Eucaristia e quello di Scorsese è proprio un cinema della presenza reale, dell’autore che si cala nel mondo rappresentato, del corpo, anche quello divino, che soffre. Tutti i suoi protagonisti sono ai limiti dell’Inferno, vi sprofondano cercando un’uscita o una redenzione. O fuggono da Dio anziché cercarlo: come capita al Cristo ispirato al romanzo di Kazantzakis, che, anche solo sognando, vive una vita normale prima di prendersi il peso dei peccati del mondo.

Si può intravede una fuga da Cristo, un tentativo forte, quanto inutile, di sfuggire al proprio destino, di liberarsi da una responsabilità che non compete. È un mondo rigidamente determinista quello creato da Scorsese insieme allo sceneggiatore di tante sue opere, Paul Schrader. Un mondo dove non solo non esiste libero arbitrio, ma in cui la grazia sembra seguire anche le vie più imprevedibili, e dove la salvezza deve passare per la morte, l'unico modo possibile per tornare a essere Bene dopo aver incarnato il Male.

E la regia ha una significativa rilevanza in questo quadro: Scorsese appartiene infatti a una cultura dell’enfasi espressiva che si manifesta nello stile. Se pensiamo a un'inquadratura firma per Martin Scorsese subito vengono in mente le inquadrature zenitali, quelle dall’alto, in Contre-plongée o a 180°. Rohmer e Chabrol avevano parlato di posto di Dio per le inquadrature dove l’obiettivo si trova in una posizione elevata, perpendicolare, che schiaccia i personaggi. In Scorsese, che spesso riprende da questa angolazione, anche riprese neutre assumono una connotazione minacciosa. È una manipolazione palese del punto di vista: la collocazione zenitale della macchina da presa esprime infatti, se non necessariamente un giudizio morale, almeno un distanziamento e un senso di fatalità.

Se anche ogni scelta stilistica risponde all'esigenza di creare continuamente risonanze emotive e intensificazioni espressive non è comunque esclusiva e può subito venire contraddetta. Un cinema che rovescia le attese, manda a monte ogni lettura rassicurante, una parabola senza morale. Non a caso nei film di Scorsese le immagini alla soglia estrema, si incrinano e si cancellano. Alla fine di The last temptation of Christ, a Gesù in croce che grida “Voglio essere il messia”, segue una raffica di colori e frammenti di pellicola, come se fosse finito il rullo. Come se le parole e le immagini non bastassero più. O non fossero più necessarie…
I FILM

Vivre sa vie
(Questa è la mia vita)
di Jean Luc Godard, Francia – 1962
Con Anna Karina, Sady Rebbot, Andrè S. Labarthe, Dimitri Dineff
Il film esplora la discesa di Nanà, ragazza parigina, nella prostituzione, con una tecnica narrativa in 12 "quadri", episodi non legati fra loro, ognuno presentato con un'introduzione verbale, ognuno che illustra un momento diverso della vita della giovane donna.
Breaking the waves
(Le onde del destino)
di Lars Von Trier, Danimarca – 1995
Con Emily Watson, Stellan Skarsgard, Sandra Voe, Katrin Cartlidge
Sulle coste della Scozia, la giovane Bess, che ha sempre vissuto in famiglia, si innamora di Ian, operaio in un pozzo petrolifero, viene ricambiata e i due si sposano, nonostante l'opposizione del paese di rigida religione calvinista. Ian torna poi al lavoro nel pozzo e, un giorno, in seguito ad un'esplosione, resta ferito gravemente. L'uomo si rende conto che non potrà mai più avere rapporti con la moglie, e allora, dal letto d'ospedale, la incita a frequentare altri uomini, ad avere con loro rapporti amorosi e poi a descriverglieli, così da poter essere in qualche maniera ancora vicini. Bess, ingenua e tutta dedita al suo uomo, accetta l'invito, si lascia andare a rapporti con sconosciuti, spera nel miracolo divino parlando di continuo con il Signore attraverso frequenti colloqui privati. Abbandonata ed emarginata, insiste fino al sacrificio estremo…
Asì es la vida
(Questa è la vita)
di Arturo Ripstein, Messico – 2000
Con Arcelia Ramirez, Luis Felipe Trovar, Patricia Reyes Spindola, Ernesto Yanez
A Julia cade il mondo addosso quando suo marito Nicolas la lascia per una donna più giovane. Di colpo vede sparire tutto ciò per cui aveva sacrificato ogni cosa: la sua famiglia d'origine, la città in cui era nata, il benessere delle sue origini. L'impatto emotivo dell'abbandono le impedisce di accettare la nuova situazione mentre la sua amica Adela cerca di fare tutto il possibile perché dimentichi il passato e si ricostruisca una nuova vita. Ma lei non vuole accettare…
The last temptation of Christ
(L'ultima tentazione di Cristo)
di Martin Scorsese, USA – 1988
Con Willem Defoe, Harvey Keitel, Barbara Hershey, Verna Bloom
Tratto da un romanzo dello scrittore greco Nikos Kazantzakis è la storia di un uomo che tenta di opporsi alla scoperta della propria divinità e che desidererebbe vivere il destino di un comune individuo, con la propria donna e i propri figli e che accetta con fatica la propria sorte divina Questa è la parte che ha creato scandalo negli ambienti cattolici e che invece costituisce il lato più profondo e intensamente umano del film. Il Dio di Scorsese è il Dio delle debolezze, che alla fine ha uno spessore ideologico e morale molto alto. Immagini visionarie di potente impatto e splendida colonna musicale, dalle sonorità africane, di Peter Gabriel.
NOTE
(1) Vivre sa vie (Questa è la mia vita) – di Jean Luc Godard, Francia, 1962
(2) Nanà fa della filosofia senza saperlo è il titolo di uno dei 12 quadri in cui è diviso Vivre sa vie
(3) Breaking the waves (Le onde del destino) – di Lars Von Trier, Danimarca, 1995
(4) Asì es la vida (Questa è la vita) – di Arturo Ripstein, Messico, 2000
(5) The last temptation of Christ (L'ultima tentazione di Cristo) – di Martin Scorsese, USA, 1988

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