Il dolore prevale sul cuore, Mia madre, di Nanni Moretti

Che cosa è diventato per i cineasti italiani, il cinema? Improvvisamente due registi, Placido e Moretti, si abbandonano alla fatalità. Non sono più in grado di dare risposte nè di porre le domande

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Che cosa è diventato, per i cineasti italiani, oggi, il cinema? Improvvisamente, due registi che amiamo da sempre, Michele Placido e Nanni Moretti, si abbandonano alla fatalità. Non sono più in grado di dare risposte e, forse, neppure di porre le domande. Lentamente, poeticamente, dolorosamente, provano a tracciare le linee di un cinema che ha perso il suo senso, il suo meraviglioso “punto di vista” sul mondo.


Ma perché uscite tutti cosi tristi dal cinema stamattina?

Ma chi ve lo fa fare, allora faccio meglio io che sto qui a prendere il sole e respirare all’aria aperta!

Il parcheggiatore abusivo davanti al Nuovo Sacher dopo la proiezione stampa

 

Tristezza

Sembra essere proprio la tristezza, il sentimento dominante quest’ultimo lavoro di Nanni Moretti. Una tristezza afasica, quasi immobilizzante, quella che ti spinge a fare le cose solo perché “le devi fare”, nel tourbillon frenetico delle nostre folli vite quotidiane. Perché, perché tutto questo dolore?

 

Margherita, la protagonista del film, è una regista. Di quelle “impegnate”, all’italiana, che nell’immaginario rètro di Moretti deve occuparsi, per forza, delle fabbriche che chiudono, della perdita dei posti di lavoro, dello “scontro di classe” tra gli operai e le nuove classi dirigenti internazionali. Cosa vuole raccontare?  Sembra quasi che Moretti volesse mettere in scena una sorta di “senso di colpa”, profondamente radicato nei registi italiani, per non sapere intervenire più sul “reale”, saper incidere con atti e storie che possano cambiare il panorama politico-sociale nazionale. E’ il sogno di essere il Francesco Rosi di Le mani sulla città, ma oggi è così difficile “prendere posizione”, soprattutto per chi come Nanni ha fatto della battaglia politica/etica un impegno forte, contro Berlusconi e tutto quello che rappresentava, dieci e più anni fa. Oggi Berlusconi è ancora lì, ma un po’ in disparte, dietro le quinte, ma i personaggi mediatici forti si chiamano “Matteo”, e non hanno nulla a che fare con il Vangelo di Pasolini. Il Caimano, come la Cosa di Carpenter, è entrato nei corpi degli altri…  Ed ecco che Margherita (che in teoria dovrebbe essere l’alter ego del regista, ma che sta vivendo forse una crisi di identità forte…), mentre presenta alla stampa il suo film “politico”, si domanda, tra se e se, “Ma perché continuo a ripetere le stesse cose da anni. Tutti pensano che io sia capace di capire quello che succede, di interpretare la realtà ma io non capisco più niente.

 

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Io non capisco più niente. Eccola la resa alla complessità delle cose, o meglio al come la vita non accetta riduzioni, semplificazioni. Tua madre muore: le madri invecchiano, si ammalano, muoiono.

 

E questa sofferenza della perdita della madre è un lutto che per elaborarlo possono volerci più dei cinque anni che separano la scomparsa di Agata Apicella dalla realizzazione di Mia madre.

 

Cosa sono, cosa erano, le nostre madri? Un magnifico contenitore di emozioni. Mentre la nostra anima intellettuale si dipanava tra riflessioni culturali, politiche, sociali, azioni necessarie, idee e sogni per le nostre piccole/grandi rivoluzioni, nostra madre rimaneva un’entità quasi arcaica, qualcosa che restava forte ed immobile, sorta di punti di riferimento materico, impermeabile al mutare della Storia. Si, certo invecchiava, e noi con lei, ma restava sempre, insieme alla “casa di famiglia” (ognuno ricorda la sua), il contenitore immutabile dei ricordi, della nostra infanzia, delle nostre paure, dei nostri sentimenti più profondi.

 

Questo contenitore, a un certo punto, non c’è più. E il papa di Habemus Papam, diventa il Moretti che non sa ancora razionalizzare il perché di tutto questo dolore, e quindi girovaga in fuga nella città eterna alla ricerca della magnifica semplicità, quel cappuccino e cornetto che nella mattinate di dolore, ci riempie per un attimo il cuore, lo sguardo e lo stomaco, di felicità.

 

Ma quando riusciamo a liberarci dal peso del dolore di questa perdita? Una volta lo chiesi al mio zio più caro, che aveva sofferto a lungo la perdita della sua di madre (mia nonna). Mi rispose: “mai”.

 

Questa negazione della possibilità di elaborare il lutto rappresentò per me una scoperta e una dannazione, ma anche una magnifica determinazione: la memoria di qualcuno che non ci abbandona più. Ecco, questa elaborazione nel film di Moretti si dipana molto sotterraneamente, nelle viscere della storia, come fosse un sottotesto invisibile, un film “bellissimo e incompreso”, totalmente diverso da quello, controllato e lineare, che invece ci troviamo di fronte. Il dolore rimane compresso, nonostante le urla, gli sfoghi e i pianti di Margherita. Nessuna elaborazione è possibile.

 

Il fratello di Nanni

 

E così, mentre il “film apparente” di Nanni Moretti, con la “protagonista apparente” Margherita, e “la madre” Ada (Giulia Lazzarini), scorrono davanti ai nostri occhi di spettatori dolenti, c’è un altro film, un altro personaggio, un doppio nel doppio, che Moretti riserva, come attore, per se stesso: Giovanni (che, ovviamente, è il nome di Nanni Moretti).

 

Chi è questo Giovanni? Il fratello di Margherita. Cosa fa? Come vive, dove vive? Come soffre?

 

Sembra proprio un’altra (possibile) storia. Via il cinema, via l’esuberante John Turturro, via le riflessioni tra il cinema e la vita, via le ansie di una donna di mezza età, via le storie delle sceneggiatrici donne, via tutto. Resta solo questo Frammento di personaggio. Lo vediamo apparire in un sogno, mentre dice a Margherita (ovvero a Nanni): “Fai qualcosa di nuovo, di diverso, rompi almeno un tuo schema, uno su duecento.” Lo vediamo curarsi della madre malata, con molta più attenzione e precisione della sorella impegnata nella realizzazione del film (la madre di Nanni, lo ha raccontato lui stesso, morì durante la lavorazione di Habemus Papam). Ma che sappiamo di lui? Quasi nulla. E’ un fantasma emozionale. Sempre presente in scena con Margherita, come elemento di supporto, ma poi lo vediamo due volte da solo, una volta con la madre che è a letto, e gli augura la buona notte, un’altra con il suo datore di lavoro, al quale sta comunicando che questa aspettativa che si è preso vorrà essere definitiva.

 

Ora viene da domandarsi: se questo è un personaggio di sostegno, fondamentale nella narrazione come riferimento costante per la protagonista Margherita, perché abbiamo bisogno di questa informazione sul suo lavoro? E perché invece non sappiamo nulla della sua vita privata (ha una moglie, un ex moglie, dei figli)? Chi è Giovanni?

 

Verrebbe da dire, seguendo la ricerca del “contenitore” che Moretti sembra portare avanti da un po’, che il Fratello è la ricerca di un “nuovo contenitore”, dove ritrovare le nostre memorie, le nostre storie di bambini, poi ragazzi,  il sentire comune di un’epoca, la nostra infanzia, in cui con qualcuno abbiamo condiviso questo contenitore di emozioni. Questo è un personaggio fantastico, un fantasma appunto. Quello che forse avremmo voluto avere e che non tutti possono avere. Ma è anche una dolce e sottile illusione, perché quella storia, quel passato, quei ricordi, sono restati attaccati al corpo di nostra madre, alle pareti della casa, e ora restano tutte dentro le foto di famiglia.

 

Foto ricordo

 

C’è una foto, nel film, nella stanza della madre, quando è tornata a casa dall’ospedale. Si intravede, in bianco e nero, sullo sfondo. Non sono sicuro, ma ho la sensazione che sia la foto di matrimonio dei genitori di Nanni. Credo di aver intravisto la sagoma inconfondibile di suo padre, Luigi. Non so se è vero ma voglio credere che lo sia. Un dettaglio “vero” dentro una storia dove i due personaggi principali portano il nome degli interpreti. Dove sta la “realtà” nel cinema di oggi? In Habemus Papam c’era ancora questa “ricerca della felicità”, magari con una piccola fuga da se stessi, magari uscendo “fuori dal cinema”. In Mia madre il cinema è un vero e proprio sogno (il Capranichetta, con la coda infinita di persone per andare a vedere “Il cielo sopra Berlino”), oppure un incubo, come il film che Margherita sta girando con un divo hollywoodiano che la fa impazzire.

Che cosa è diventato, per i cineasti italiani, oggi, il cinema? Improvvisamente, due registi che amiamo da sempre, Michele Placido e Nanni Moretti, si abbandonano alla fatalità. Non sono più in grado di dare risposte e, forse, neppure di porre le domande. Lentamente, poeticamente, dolorosamente, provano a tracciare le linee di un cinema che ha perso il suo senso, il suo meraviglioso “punto di vista” sul mondo. Il dolore ha prevalso sul cuore. E lo schermo sanguina, mentre la tristezza di un mondo chiuso e senza vie di fuga (che ancora aveva il papa Melville), non ci permette di intravedere un futuro…

 

E allora, per il presente, facciamoci guidare dalle giornate di sole dei nostri amici parcheggiatori….

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    Un commento

    • Un’idea del mondo e un’idea del cinema.Dopo averci instillato certezze,titillato le nostre compiaciute esistenze intellettualoidi,M. ci rende partecipi delle sue ansie con un film commovente.Tenendo fede alla massima di Truffaut ci offre uno sguardo alla ricerca del senso perduto della vita e del cinema.Ci assesta un pugno nello stomaco e oltre al cervello ci stimola emozioni più intime.Dalla sala si esce malconci.Se qualche speranza sembra esserci per la vita poche sembrano quelle per il cinema