Le streghe son tornate, di Álex de la Iglesia

Un grande incubo-elogio della femminilità che viene a reincarnarsi nella sensualità decisa e nel corpo esplosivo di Carolina Bang. Non c’è null’altro, oltre il divertimento personale del regista

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Un gruppo di disperati organizza una rapina a un “compro oro” nel pieno centro di Madrid. Sono vestiti d’attrazioni di strada: uno è un Cristo argentato con tanto di corona di spine e croce, un altro è un soldato di plastica. Poi, più in là ci sono Spongebob e Minnie. E ad attenderli, dentro, c’è… un bambino. La rapina è rocambolesca, quasi avvincente. Ma l’ironia portata avanti fino all’assurdo ti mantiene sempre a una certa distanza… Comunque, Cristo, il soldato e il bambino riescono a scappare grazie all’aiuto di un tassista, tra sparatorie e invettive contro le donne, streghe che ti rovinano la vita. Purtroppo per loro, si ritroveranno in preda a delle streghe vere e proprie, nei dintrorni del villaggio di Zugarramurdi, in Navarra, sulla via per la Francia, terra per tradizione di sabba e stregoneria. E da qui potremmo andare avanti allo sfinimento. O forse no…

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Forse basterebbe fermarsi ai titoli di testa per capire dove si va a parare. Le streghe di Zugarramurdi si confondono con le dive di Hollywood, Angela Merkel e Margaret Thatcher e con le raffigurazioni primitive della madre terra. In un grande incubo-elogio della femminilità che, ovviamente, per de la Iglesia viene a reincarnarsi nella sensualità decisa e nel corpo esplosivo di Carolina Bang. Nel film non c’è null’altro, oltre il divertimento personale del buon Álex, che da tempo, ormai, non si accorda più al nostro piacere, se non per brevi attimi, sequenze o battute.

Si recupera una tradizione di leggende e usi, vero, ma non è più la chiave di volta che permetta di mettere a soqquadro la contemporaneità. Semmai una suggestione su cui imbastire un altro gioco da bambini, di spaventi compiaciuti, urletti e risate. E men che meno c’è quella volontà eretica e iconoclasta che animava Rob Zombie nel suo ultimo sabba/dichiarazione d’amore. De la Iglesia si prende meno sul serio (e non è detto che sia un difetto). Ma il suo modo di procedere bulimico, per accumulo di situazioni, citazioni, fino a una vera e propria orgia di ridondanze visive, è poggiato su un corpo troppo piccolo per reggere fino in fondo. Dopo un solo giro di pista, il suo cinema mostra il fiato corto, come se il sovraccarico eccessivo di invenzioni avesse appesantito l’intera macchina spettacolare, unico totem indiscutibile. E, alla fine, questa sublime baracconata da milioni di euro smorza il sorriso in una smorfia di insofferenza. Missione compiuta.

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