#Cannes68 – Il racconto dei racconti, di Matteo Garrone

Presentato in Concorso il primo film italiano. Garrone tenta qui la summa fantasy delle sue tematiche ricorrenti, ma ne decuplica anche il controllo a monte rinchiudendo il cinema in una teca

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I Racconti…

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Dietro la complessa operazione produttiva di questo Il Racconto dei Racconti si annida una forte scommessa autoriale. E bisogna subito dar atto a Matteo Garrone di aver rischiato molto imbarcandosi in questa impresa. Il supposto (e forse equivocato) erede di un canone neorealista tutto italiano – dagli attori non professionisti, alle tematiche sociali, sino alla radicale estetica del pedinamento dei corpi – cerca qui di fondere ogni ossessione indagata nei sette film precedenti per ri-portarla al suo grado zero e distillarla nell’archetipo nudo e crudo. Il Fantasy. Garrone opera qui come l’orafo di Primo Amore sul corpo della sua filmografia, poggiandosi fiducioso sulle solide spalle di un gigante semi-dimenticato come Giambattista Basile (scrittore napoletano del ‘600, padre di molta favolistica occidentale successiva) per ri-narrare la vita e la morte, la bellezza e il mostruoso, il desiderio e l’ossessione, l’anima e la pelle, il doppio e il materno, il potere e la vanità. Tutte dicotomie padroneggiate con certosino senso filologico e affidate a un cast tecnico (il monumento Peter Suschitzky alla fotografia, le musiche di Alexandre Desplat, gli ottimi effetti visivi di Leonardo Cruciano) e artistico (Salma Hayek, Vincent Cassel, Toby Jones) di statura hollywoodiana.

E allora: le tre fiabe (liberamente) tratte dalle cinquanta de Lo cunto de li cunti basiliano (La vecchia scorticata, La Pulce e La cerva fatata) intessono un paziente mosaico dove Re e Regine, negromanti e funamboli, incantesimi e mutazioni, draghi e pulci giganti, configurano una sofisticata coreografia di input culturali sin troppo calibrata in sceneggiatura. Poi però c’è il Cinema da (r)aggiungere a queste belle intenzioni e qui il discorso si complica, perché le immagini di Garrone non riescono quasi mai a mutar pelle come i characters di Basile, non riescono a creare un immaginario dalla loro smaccatissima tensione simbolica (il “labirinto” della Regina o la “corda” sospesa del funambolo ne sono esempi sin troppo chiari) limitandosi a una perfetta e suggestiva serigrafia che fa una terribile fatica a vibrare nel contemporaneo.

2Ecco: rispetto al fantasy americano di Peter Jackson (o persino all’opposta e personalissima operazione boccaccesca di Pier Paolo Pasolini) è proprio la naiveté del sentimento fanciullo e “originario” che qui manca totalmente. Manca la magia nell’immagine e l’affabulazione primigenia che una simile materia ribollente doveva garantire. Perché la consapevolezza asfissiante dell’operazione teorica preventiva (certamente di notevole spessore) prende il sopravvento sul film e crea una siderale distanza tra il materiale di partenza puntato all‘intrattenimento – evocato dalle poche sequenze della famiglia italiana di circensi formata da Massimo Ceccherini e Alba Rohrwacher – e l’occhio dello spettatore del 2015 che se ne resta vigile-vigile a catalogare immagini di indubbio fascino pittorico ma sinceramente un po’ troppo fini a se stesse per trasformarsi in “film popolare” come il regista apertamente auspica.

…del Racconto.

Cinema imbalsamato(re)? Sicuramente cinema che dosa col bilancino i motivi del genere e quel tanto di giuste citazioni colte (umori felliniani e bergmaniani evidenti) nella ricerca della ricetta perfetta per puntare al pubblico di massa ma conservando il pedigree di grosso autore di nicchia. In questo modo, però, Garrone non sonda mai il fuori-campo pulsionale degli abissi immaginifici che corteggia evidentemente (pensiamo al cinema di David Cronenberg e a tutte le nuove carni qui evocate), seducendo gli occhi con l’artigianale cura baviana del dettaglio (il drago marino è abbagliante), ma rimanendo rinchiuso in una teca sterilizzata dove lo sguardo non può mai veramente perdersi. O (ri)vivere.

3Garrone inverte da subito i termini dell’opera di partenza. Se da un lato tenta la meritoria summa fantasy delle sue tematiche ricorrenti (gli abissi ossessivi di Primo Amore, la violenza endemica di Gomorra o l’universo onirico di Reality), dall’altro decuplica pericolosamente il controllo a monte su forma e narrazione. Ci promette un racconto dei racconti ma non va mai oltre i racconti del racconto: una geometria metatestuale di segni che tendono tutti a un “nocciolo” narrativo, all’archetipo puro, ma non arrivano mai a sfiorarne l’anima emotiva. Ecco che viene in soccorso l’Italia: Garrone cerca la sua “grande bellezza” non nella Roma papalina sorrentiniana, ma nei Borghi di una provincia senza tempo (Castel del Monte, Castello di Donnafugata, Roccascalegna, ecc) fondendo il fantasy horrorifico con l’iconografia paesaggistica dei meravigliosi Castelli medievali italiani. Ancora una volta, però, si ha la sensazione che i luoghi non riescano a produrre uno spazio nuovo, un universo (cinematografico) parallelo, rimanendo ben ancorati alla loro naturale referenza. Insomma il potenziale film/funambolo in precario equilibrio sulla corda tesa dei generi e del tempo non si mette mai del tutto in “gioco”. Intasa gli occhi e non conquista il cuore. Anche la fiaba può essere un rischio calcolato, certo, ma calcolare troppo le emozioni equivale fatalmente ad anestetizzarle.

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