#Cannes68 – Saul Fia (Son of Saul), di László Nemes

In concorso, l’esordio nel lungometraggio del trentottenne cineasta ungherese che vuole ridisegnare le traiettorie del cinema sulla Shoah. Ottima partenza, poi la forma prevale sulla storia

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Un campo di concentramento come un girone dantesco. Un uomo ripreso di spalle nei suoi frenetici movimenti. Una X segnata sulla schiena. Quasi un unico corpo che attraversa il luogo. Attorno a lui prigionieri e soldati nazisti. Ma sono come sfocati. Lui li attraversa e ci passa davanti. Saul Fia inizialmente invece li rende invisibili.

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Nell’ottobre del 1944, ad Auschwitz-Birkenau, Saul Ausländer è membro del Sonderkommando, un gruppo di prigionieri ebrei isolato dagli altri e costretti ad assistere i tedeschi nei loro stermini. In uno dei crematori dove lavora riconosce il corpo del figlio. Cerca allora l’impresa impossibile: sottrarre il corpo dalle fiamme per dargli una degna sepoltura.

La partenza è a razzo. Piani-sequenza interrotti da stacchi frenetici, come per ridisegnare, proprio da un punto di vista formale, le coordinate del cinema sulla Shoah. Il trentottenne cineasta ungherese László Nemes costruisce intorno un persistente inferno sonoro e costruisce un’autopsia della Storia, con contorni molto neutri proprio per mantenere la vicenda quasi nel limbo dell’invisibilità. Il regista, qui all’esordio nel lungometraggio dopo tre corti (tra cui il pluripremiato With a Little Patience del 2007) non cerca né la bellezza né la seduzione. Ma tutto il meticoloso lavoro visivo-sonoro rischia di soffocare il protagonista. La macchina da presa infatti gli sta così addosso da non lasciargli tregua. La condizione di Saul così diventa esplicita anche da alcuni dialoghi (“Hai abbandonato i vivi per i morti”), i riferimenti cinematografici dichiarati (Come and See di Elem Klimov del 1985) e lo stile interrompe più volte quella che si doveva trasformare in una lunga preghiera del padre nei confronti del figlio. Che dopo l’ottimo inizio, si sente sempre di più a intermittenza. E la scena in cui Saul viene preso in giro dai soldati e fatto correre in cerchio ha quella crudeltà formale tipica di un cinema che vuole confrontarsi, anche solo per un attimo, con la dimensione del grottesco senza però immergercisi consapevolmente.

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