#Cannes68 – The Lobster, di Yorgos Lanthimos

L’attacco d’Autore in Concorso nei confronti della decadenza morale civile si consuma nella convinzione che l’apologo possa funzionare solo se condito da porcherie a sorpresa

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L’allegoria di Lanthimos, presentata in Concorso qui a Cannes, e’ figlia di una quantita’ di riferimenti letterari distopici decisamente scoperti, Fahrenheit 451 (o la maga Circe dell’Odissea?) con alta probabilita’ su tutti, ma l’ossessione formale e’ quella che conosciamo nel rigore crudele ed essiccato del cineasta da sempre, attento scarnificatore dell’immagine e del racconto per lasciar emergere ancora una volta una visione mostruosa e schifata dell’umanita’ (immaginiamo che ognuno abbia il proprio riferimento di sci-fi disperata da porre a confronto, il nostro e’ il superbo racconto Per sempre, disse il papero, del sempre sia benedetto Jonathan Lethem).

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Nell’universo di Lanthimos o si costituisce una coppia oppure si viene letteralmente trasformati in un animale a scelta. L’amore e’ il gioco delle cose-che-abbiamo-in-comune tra gli internati in una struttura alberghiera in cui gli aguzzini scandiscono 45 giorni di attivita’ di gruppo per trovare l’anima gemella, compresa la caccia nella foresta alla ricerca dei fuggitivi che hanno deciso di vivere clandestinamente da solitari. Il nostro protagonista sperimenta entrambe le condizioni per scoprire che le punizioni del clan dei fuorilegge non sono poi cosi’ piu’ umane della vita istituzionale in citta’.
Di fatto confermando quanto Paolo andava scrivendo nella Lettera ai Romani, sull’amore come unica dimensione possibile per uscire dal dualismo vizioso Legge/peccato: una volta che prendiamo pienamente coscienza della dimensione dell’amore nella sua differenza radicale dalla Legge, l’amore ha, in certo qual modo, già vinto, dal momento che questa differenza è visibile solo quando dimoriamo già nell’amore, dal punto di vista dell’amore (Badiou).

Purtroppo pero’ Lanthimos preferisce il supponente sogghigno di un finale che non ha piu’ letteralmente gli occhi per piangere, altro che punto di vista dell’amore. La trappola simmetrica e prospettica non offre via d’uscita e si ripete tale e quale tra i corridoi e gli androni dell’hotel quanto nella foresta dei fuggitivi (scommettiamo che qualcuno tirera’ in ballo Kubrick?).
E nuovamente non possiamo che registrare quanto questo cinema abbia molto piu’ a che spartire con la Legge che col sentimento, nonostante il tono da sobillatore intellettuale, sovversivo letterario. Dunque, da queste parti puntualmente inaccettabile: Disgraziato, che io sono!, sbotterebbe Paolo.

E’ solo che l’attacco d’Autore nei confronti della decadenza di una morale civile si consuma, come fosse una novita’, prevedibilmente alla ricerca dell’effetto scorretto ed efferato, nella convinzione che l’apologo possa funzionare solo se condito da porcherie a sorpresa che irrompono in una messinscena minimal e stilizzata (musica classica e contemporanea anche clamorosa, solo repertorio, come da manuale).
Ci vuole una pazienza che non so piu’ se abbiamo, potremmo cercarne degli scampoli giusto per ricambiare l’amicizia di John C. Reilly e Colin Farrell, ma in tutta sincerita’ a che scopo?
E’ evidente quanto Lanthimos non abbia necessita’ o urgenza di avere a che fare con la razza umana, neppure nelle forme aggraziate di Léa Seydoux e Rachel Weisz.
Come ascoltare musica elettronica in cuffia ma insieme agli altri, ballando ognuno per conto proprio e in silenzio, questo e’ un cinema che piu’ che a raccontare l’incomunicabilita’, e’ decisamente impossibile da condividere.

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