#Cannes68 – Mon Roi, di Maïwenn

Torna in Concorso Maïwenn con un progetto affidato ai suoi punti di forza: una certa sensibilita’ nello stare addosso agli attori, e un respiro ampio alle scene piu’ gonfie di sentimento

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Maïwenn alza l’asticella dopo il successo qui a Cannes del suo Polisse nel 2012, e si affida, per un progetto narrativamente decisamente piu’ complesso, ai punti di forza della propria impalcatura registica: una certa sensibilita’ nello stare addosso agli attori, e al contempo la capacita’ di saper donare un respiro ampio alle scene maggiormente gonfie di sentimento.

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Se l’incipit con la seduta terapeutica/interrogatorio a cui viene sottoposta la protagonista Tony puo’ ricordare i numerosi colloqui con i bambini abusati proprio in Polisse, e’ anche dal film precedente che sembrano venire quelle gioiose e caotiche scene di tavolate multietniche in cui ci si stringe intorno agli amici in difficolta’ tra scherzi e risate, grazie alle quali Tony riesce a sopravvivere alle giornate di fisioterapia nel centro di riabilitazione dove e’ ricoverata dopo un brutto e sospetto incidente con gli scii (e’ proprio a quei tavoli che ad un certo punto ti aspetteresti di vedere spuntare l’immenso Joeystarr…).
Alla stregua di quanto accadeva al personaggio interpretato proprio dalla regista in Polisse, attraverso il contatto con un’umanita’ piu’ semplice e umile, come un dialogo del film racconta letteralmente, Tony recupera il sorriso perduto stando appresso alla bella vita altolocata. L’ingenuita’ presunta di questa “poetica minima” di Maïwenn e’ quello che ne infastidisce i detrattori piu’ accesi che arrivano a parlare di disonesta’ degli intenti, e che anche in questo caso non mancheranno.

Ad ogni modo. L’ambizione della regista e’ proprio quella di raccontare le ragioni che hanno spinto Tony, rigorosissimo avvocato, a quel salto nel vuoto tra la neve, e per ritrovarle c’e’ bisogno di rivivere un decennio di amore burrascoso e malato con l’inarrestabile viveur Georgio: un matrimonio, un figlio, tradimenti, violenze psicologiche, menzogne, psicofarmaci, alcool e droga. Ma anche tanti istanti di luminosa complicita’, fasciati dall’usuale passione di Maïwenn per la musica dancepop sparata a palla.
E’ chiaro che materiale del genere puo’ funzionare solo se lanciato a temperatura di ebollizione, e ad alta velocita’, insomma possa avere una sua forza unicamente se costantemente esagitato: ed e’ qui che entra in ballo Vincent Cassel.
Il suo Georgio flirta con la mdp di Maïwenn proprio come fa con le donne (la bella soggettiva sui particolari del volto di Cassel nel finale), e’ irresistible e sempre in scena nel suo personale spettacolo infinito, travolge ogni sequenza senza alcun freno, si fa amare alla follia per poi distruggere tutto nella sequenza subito successiva. L’intera impalcatura di Mon Roi non funzionerebbe se il disegno di Georgio non reggesse, ma ad un satiro come Cassel basta un cenno di partenza per portare tutto il film dalla sua parte.

Maïwenn sembra consapevole del rischio di scatenare l’aspetto incontenibile di Cassel, e dunque costruisce con amore le figure che gli girano intorno, come i cognati Louis Garrel e Isild Le Besco (luminosa sorella della regista), e soprattutto si concentra senza dare tregua sulle lacerazioni del corpo di Emmanuelle Bercot, messo in mostra e martoriato con costanza lungo tutto il film: la Bercot reagisce con una performance forte e di totale, sincero abbandono alla mdp.
Ecco, quando nella lunga seconda sezione del film la vita di coppia diventa un incubo sotto sedativi, e Maïwenn dimostra qualche incertezza di troppo e una mano non sempre felice e dosata, e’ una fortuna che Mon Roi abbia l’orgoglio grande di Emmanuelle Bercot su cui sostenersi.

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