#Cannes68 – Lamb, di Yared Zeleke

Presentato in Un certain regard, Lamb non e’ soltanto il primo film etiope presentato a Cannes, ma anche un riuscito e affascinante racconto di formazione

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La prima cosa interessante di Lamb è l’adiacenza drammaturgica e morale del racconto di formazione con quella produttiva e culturale dell’intera operazione. Quello di Yared Zeleke è figlio di una cinematografia ancora troppo invisibile ed è il primo film etiope presentato a Cannes. Abbiamo a che fare perciό con un progetto che muove i primi passi, sdoganando una grammatica filmica in cui ogni cosa ha il fascino e l’urgenza della scoperta epifanica: un campo lungo, una panoramica, i dettagli del cibo, le scene di dialogo. Tutto qui viene filmato come se fosse la prima volta. E infatti per il regista si tratta in effetti di un’opera prima che a sua volta si riallaccia in modo esplicito ma anche poetico alla tradizione neorealista del cinema del Terzo Mondo. E’ quasi consequenziale allora che quella prima volta debba convergere su una storia che di fatto è una vera e propria parabola di crescita compiuta da un personaggio bambino.

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Ephraim infatti è un ragazzino che ha appena perduto la madre e viene lasciato dal padre – costretto ad andare a lavorare ad Addis Adeba –  presso alcuni suoi cugini contadini in mezzo alle montagne. Il suo miglior amico è la pecora che dá il titolo al film. Un animale che ha ereditato dalla madre e che il ragazzino porta sempre con sé nelle sue passeggiate in mezzo alla vegetazione africana o nelle sue discese in cittá per tirare su qualche soldo vendendo cibo. Quando arriverá la stagione delle piogge e mancherá da mangiare il ragazzo dovrá liberarsi dell’animale, accettandone il sacrificio. Cederlo in dono alla famiglia per lui sará fonte di dolore ma forse anche la necessaria presa di coscienza di un passaggio all’etá adulta. E alla fine non e’ detto che non ci sia la possibilitá di rinunciare all’animale senza ucciderlo.

Il film è continuamente indirizzato su questo processo di allontamento e crescita, con la macchina da presa che segue i movimenti di Ephraim ma senza cedere a un pedinamento eccessivo ne’ a facili soluzioni ricattatorie. Stilisticamente Zeleke infatti predilige inquadrature ferme, in linea con la lezione del cinema africano, a tratti contemplative nell’incorniciare i personaggi dentro il meraviglioso paesaggio africano. Si appoggia quindi a rituali religiosi, quotidiani, ad aperture visive splendide quanto umili, senza mai perdere di vista l’essenzialitá intima della piccola storia che racconta. Un bel punto di partenza.

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