#Cannes68 – Valley of Love, di Guillaume Nicloux

Il regista francese abbandona le forme malate nella rappresentazione della follia, per un cinema che si sta ingrigendo. E nel confronto tra i due attori, Depardieu batte nettamente la Huppert.

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Quando il cinema francese va in trasferta statunitense, invece di allargarsi sembra ridimensionarsi. Malgrado il formato, tra il Cinemascope 2.35: 1 e il 35 mm, nella Death Valley, dove il paesaggio appare immenso, contemplato, ma non inghiotte con i suoi fantasmi.

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Due attori (Gérard Depardieu e Isabelle Huppert) da tempo separati e che non si rivedono da tempo, si ritrovano in California dopo aver ricevuto una lettera postuma del loro figlio Michael, morto suicida sei mesi prima. Malgrado l’assurdità della situazione, decidono di accettare la richiesta che il ragazzo gli ha fatto per stare ancora tutti insieme nella Valle della Morte.

L’inizio è quasi da thriller. Una donna seguita alle spalle mentre cammina con il suo trolley. Poi gli attori si prendono la scena. E se Isabelle Huppert esibisce una tecnica esemplare quanto mai stonata in questo contesto, Depardieu invece avanza con il suo respiro affannato, con la ricerca di un dialogo che sembra travalicare quella del suo personaggio. Dopo i numerosi scontri verbali, Gérard si trova davanti a Isabelle (i personaggi hanno gli stessi nomi degli attori) dopo essersi smarrito nel cuore della Death Valley, prova ma non riesce a pronunciare nessuna parola. Piccoli veri sussulti del cinema di Nicloux che invece si sta normalizzando e sta diventando sempre più grigio soprattutto da La religiosa in poi. Del regista prima maniera ci sono solo dei residui. Come le forme del thriller fantastico di L’eletto con l’apparizione della Morte sul campo da tennis o la testa del cane in un sacco nella toilette. E soprattutto quell’intenso piano-sequenza in cui Gérard sente un urlo di Isabelle e cammina velocemente al buio per poi bussare alla porta dell’ex-moglie che richiama quella tensione disordinata e rabbiosa di polizieschi come Une affaire privée e Cette femme-là.

isabelle huppert in valley of loveÈ proprio la sua meccanicità a bloccare spesso Valley of Love. Lo spettro evocato non si vede e non si sente. I segni sulle gambe di Isabelle e sulle mani di Gérard sono solo il risultato di una strategia di scrittura e non il passaggio di inquietanti apparizioni. Gli altri fantasmi potrebbero essere quelli di un cinema passato. Depardieu e la Huppert nei panni di loro stessi, che si ritrovano 35 anni dopo Loulou di Pialat. Ma se poi si risolve tra finti progetti mancati (Il Padrino), autografi beffa (Gérard che fa una dedica a un fan un po’ invadente firmandosi Bob De Niro), il gioco si chiude in un paio di sketch, resta solo il colpevole ritardo per essere entrati nel cuore di quello che poteva essere un altro thriller malato e invece prevale uno stile controlato da Comedie Française, dove la lettera letta da Isabelle è un saggio di recitazione fatto di dizione+emozioni. Tutto pronto per un cinema da esportazione. E un invito fin troppo generoso nel concorso di quest’anno.

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