È arrivata mia figlia, di Anna Muylaert

Il cinema di Anna Muylaert torna a farci innamorare della sua leggerezza disordinata che tocca le corde più fragili dell’universo femminile, le cui voci raccontano di un paese in fase di rinascita

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Val (Regina Case) è una donna che mostra la sua forza immensa nel dolore delle numerose rinunce. L’impossibilità di crescere sua figlia Jessica (Camila Márdila), affidata a dei parenti nel nord del Brasile, è La rinuncia che nasce speculare alla necessità di essere economicamente indipendente. Assunta come domestica nella villa di Doña Bárbara (Karine Teles) e Don Carlos (Lourenço Mutarelli) a San Paolo, incarna nella minuzia dei suoi gesti quel candore arcaico di custode dell’oikos e mater familias. Cresce con affetto il figlio dei padroni, Fabinho (Michel Joelsas), dispensando consigli ed attenzioni in una sospensione educazionale imposta dal rispetto della marcata definizione dei ruoli all’interno del microcosmo domestico. In un paese dove la sperequazione sociale ha le dimensioni di un buco nero, la sensibilità della regista Anna Muylaert ci fa immergere in uno spazio intimo ed inconfessato, dove il confronto generazionale si scontra con un impianto di radicata matrice classista, goffamente celato da una modernizzazione ancora conservatrice e dunque intatto. Col beneplacito liberal-borghese che ondeggia nell’acqua chiara della grande piscina, Val non vi si immerge, possiede le chiavi di ogni porta che non osa aprire senza consenso, cenno o ordine dell’aliena famiglia emotivamente imbalsamata. Un nucleo fragile in cui la comunicazione tra un padre depresso, una madre assente e un figlio dimenticato passa attraverso la rarefazione di uno schermo, riacquistando significato nell’articolazione di Val, che ascolta e si pronuncia come ambasciatrice di un’umanità dimenticata. La reciprocità non ha scampo nella triade di rapporti univoci, e il dramma personale che la protagonista tampona nelle ore di libertà, fatte di piccoli locali illuminati al neon e chiacchiericci pomeridiani, è taciuto, o meglio inascoltato.

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Ma dopo dieci anni di lungo silenzio, Jessica si riaffaccia nella vita di Val, pronta a stravolgerne le regole: consapevole, intelligente, ambiziosa e mossa da una curiosità spiazzante si spinge al di là di ogni confine, senza vincoli né ossequi, sotto lo sguardo attonito di una madre che imparando a conoscere sua figlia, libera se stessa da un atavico senso di colpa. Il cinema di Anna Muylaert torna a farci innamorare della sua leggerezza disordinata che tocca le corde più fragili dell’universo femminile, le cui voci raccontano di un paese in fase di rinascita. Tornano gli esseri umani alle prese con le proprie dipendenze (È proibido fumar) presunte o geneticamente radicate, quelle creature di cui la regista brasiliana, vincitrice del Premio del Pubblico alla Berlinale e del Premio Speciale della Giuria al Sundance Film Festival, attraversa i corpi per mezzo di una scrittura accessibile e allo stesso tempo aspramente critica, mostrandone le ferite più profonde. Il riscatto, i mutamenti sociali, le nuove politiche di inclusione delle masse popolari emarginate, sono le tematiche intrecciate dal filo conduttore della figura della madre, della sua impossibilità di crescere i propri figli e del dovere/necessità di crescere quegli degli altri. Nonostante quel dominio delle apparenze e di un buonsenso posticcio all’interno della família emancipata solo dal sentimento, la necessità di educare e amare senza riserve, irrompe pieno di vita. Incondizionatamente.

 

Titolo Originale: Que horas ela volta?
Regia: Anna Muylaert
Interpreti: Regina Case, Michel Joelsas, Camila Márdila, Karine Teles, Lourenço Mutarelli, Helena Albergaria
Origine: Brasile, 2015
Distribuzione: Bim
Durata: 114’

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