Il terzo tempo di Vincent Lindon

Un profilo del grande attore francese, Palma d’oro per La loi du marché. Una presenza schiva, silenziosa e scostante che disegna magnifiche traiettorie d’amore

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(Jean Gabin)

 

Lo amiamo da tempo. Almeno da quando era andato in crisi per un paio di baffi tagliati con troppa leggerezza. Eppure Vincent Lindon non è certo un attore abituato a mettersi in mostra. Non è un virtuoso delle interpretazioni mimetiche. Né uno da esplosioni incontrollate o da sottigliezze psicologiche e cambi di registro repentini. Niente doti istrioniche, facce o salti mortali. Sempre un passo al di qua delle raffinatezze dell’arte drammatica. E ben oltre i canoni dei metodi. Semmai una certa prestanza atletica, spalle possenti, salde, eppure nervose, attraversate da quei fremiti sottili, che raccontano tutte le fragilità, i dubbi, le sconfitte, quei tic incontrollabili a cui ti costringe la vita. E proprio quelle spalle sono il segno evidente di una figura portentosa, solo all’apparenza trattenuta, ma caricata a molla di una potenza emotiva ed espressiva devastante. Vincent Lindon è un attore da secondo, terzo tempo. Uno a cui ci si deve abituare. È come un intruso silenzioso e scostante, solitario e ombroso, che a poco a poco diventa una presenza familiare, un amico irrinunciabile, un padre. E allora, come per miracolo, quella presenza disegna magnifiche traiettorie d’amore. Eppure c’è qualcosa di strano nella biografia di Vincent Lindon. Una specie di sfasatura tra le sue origini, i percorsi avventurosi di una vita privata da “amico, amante e…” e quei suoi personaggi spigolosi, a tratti brutali e respingenti.

quelques-heures-de-printempsClasse 1959, Lindon viene da una famiglia dell’alta borghesia francese. Il nonno, Raimond, è avvocato generale e procuratore, di spiccate simpatie sioniste. Oltre ad essere di André Citroën, il grande pioniere dell’industria automobilistica europea. Il padre di Vincent, Laurent Lindon, segue, in qualche modo la tradizione di famiglia, lavorando come dirigente per la casa di autoradio Audioline. Mentre la madre, Alix Dufaure, è giornalista di Marie Claire. Lo zio Jérôme Lindon, invece, è direttore delle celebri Éditions de Minuit. Con queste premesse, Vincent sembrerebbe destinato alla vita del rampollo, del “figlio di papà”, e alcune delle sue avventure amorose – la più celebre con Carolina di Monaco, all’indomani della morte di Stefano Casiraghi – lo confermerebbero. Il cinema? Tutt’al più un capriccio. Eppure, quel suo “corpo da operaio” è segno di altri destini, di percorsi ben più complessi. E del resto, a rigore, l’esordio non è da attore, ma come aiuto costumista, anche se niente meno per Resnais. Mon Oncle d’Amérique, è il 1980. Dopo un breve soggiorno negli Stati Uniti e una parentesi come giornalista a Le Matin, arriva finalmente il debutto davanti alla macchina. Si tratta di una particina in Le Faucon di Paul Boujenah. È il 1983. Da quel momento, Lindon non smetterà di far l’attore. Dapprima in ruoli secondari, anche con registi di un certo calibro, come Bertrand Blier (Notre histoire, con Alain Delon e Nathalie Baye) e Claude Sautet (Qualche giorno con me, con Daniel Auteuil e Sandrine Bonnaire). E poi, finalmente la svolta, nel 1988. Claude Pinoteau gli offre il ruolo di protagonista maschile per il suo nuovo film con Sophie Marceau, L’étudiante.

l'etudianteNon si tratta del seguito del mitico La boum, nonostante in Italia venga indebitamente spacciato come Il tempo delle mele 3. Ma di una turbolenta e romantica storia d’amore tra una professoressa, tanto affascinante quanto rigida, e uno scapigliato musicista jazz troppo abituato alla sua libertà. Il film ha un buon successo e Vincent Lindon, l’anno successivo, riceve il prestigioso Premio Jean Gabin assegnato al miglior attore francese emergente. È l’inizio di una fortunata carriera. Claude Lelouch lo chiama per Ci sono dei giorni… e delle lune… (1990), La belle histoire (1993), L’amante del tuo amante è la mia amante (1993). Per Tony Gatlif è protagonista di Gaspard et Robinson (1990), al fianco di Gérard Darmon. Ma è soprattutto con la vena surreale delle commedie “sociali” di Colin Serreau che Lindon trova il successo e una dimensione più personale. In La crisi! (1992) è Victor, un giovane che si ritrova da un giorno all’altro senza lavoro e senza moglie. Costretto a rimettere insieme i cocci, inizia un assurdo vagabondaggio che lo porta a conoscere un petulante barbone, Michou. Lindon non solo sperimenta la sua vena più marcatamente comica, mantenuta comunque su un registro dimesso, ma comincia a familiarizzare con le varie declinazioni di un cinema “politico”, fino ad apparire nel cruciale L’odio di Kassowitz e a impegnarsi in una sortita italiana con Vite strozzate di Ricky Tognazzi. Ritroverà la Serreau più volte negli anni successi: nel 1996 è nell’apologo ambientalista Il pianeta verde, nel 2001 è protagonista di Chaos, storia di una coppia che decide di proteggere una giovane prostituta da una temibile organizzazione criminale. Tracce di cinema di genere che s’intrecciano allo sguardo sociale, come nel polar Fred (1997) di Pierre Jolivet, in cui Vincent è un disoccupato che s’imbarca in un losco affare. E proprio con Jolivet Lindon stabilirà un altro fortunato sodalizio, che lo porterà ad esser protagonista di Ma petite entreprise (2000), Le frère du guerrier (2002), Filles uniques (2003), Je crois que je l’aime (2007), commedia romantica al fianco di Sandrine Bonnaire.

pour elleSi delinea così un’altra caratteristica decisiva dell’attore: una sorta di fedeltà ai registi, a uno sguardo particolare, che sembra tradursi in una vera e propria comunione creativa. Lindon diviene una specie di punto di riferimento per alcuni autori, il centro di una prospettiva focale. Con Benoît Jacquot gira nel 1997 Le septième ciel, per poi tornare l’anno successivo in L’ecole de chair, nei panni scomodi di un travestito, e, subito dopo, in Pas de scandale. Fino all’ultimo Journal d’une femme de chambre, ennesima trasposizione del racconto di Octave Mirbeau. Il film non è del tutto convincente, ma Vincent Lindon, nei panni di uno stalliere antisemita, ha una fascino animalesco e brutale disarmante, al punto da rubare la scena alla stessa Léa Seydoux, la nuova star riconosciuta del cinema francese. Altro sodalizio, seppur meno intenso, è quello con Claire Denis, la signora del cinema francese d’autore, incontrata nel 2002 in Vendredi soir e ritrovata anni dopo nel contorto e oscuro Les salauds. Per il resto Lindon continua ad affinare le sue doti, alternandosi tra commedie (Mercredi, folle journée di Pascal Thomas, Il costo della vita e La confiance règne di Étienne Chatiliez, Mes amis, mes amours con Virginie Ledoyen), parti drammatiche (il fortunato La moustache, di Emmanuel Carrère, al fianco di Emmanuelle Devos, che ritroverà in La permission de minuit), film di genere (Pour elle e Mea culpa di Fred Cavayé).

welcomeA poco a poco si precisa il suo stile, quello di una recitazione trattenuta, sottotono, in cui la tecnica sembra completamente annullarsi nella misurata padronanza degli atteggiamenti, delle espressioni e dei movimenti minimi. Una recitazione di sottrazione, si direbbe. Ma, al di là delle formule, qualcosa di molto vicino all’esempio dei grandi vecchi, Jean Gabin, Lino Ventura (“i miei padri fantasma”), alla loro capacità di raccontare mille storie con la semplicità di un gesto. Come diceva Gabin “dopo due o tre film mi resi conto che meno alteravo i miei lineamenti più sembravo vero, e che il montaggio rendeva chiari, senza esagerarli, i sentimenti che avevo solo suggerito… Dicevano che ‘recitavo da dentro’. Confesso che mi faceva ridere perché non ho mai capito bene cosa significasse ‘recitare da dentro’. Recitavo dando me stesso, questo sì. Sbavavo e sudavo sangue per cercare di dare ai miei personaggi una verità e una naturalezza che speravo fossero giuste”. Parole perfette per Lindon. E che raccontano non tanto l’eclissarsi di un attore in un personaggio e nelle situazioni, una semplice resa al servizio della parte e del film. Quanto una vera e propria visione etica del mondo e del cinema, una prospettiva morale, una ricerca intransigente di una verità apparentemente impossibile nelle “coglionate” delle finzione. “Io sono uno da ‘tolleranza zero’, troppo severo con me stessodice di sé Lindon La mia ossessione, nella vita come nel mio mestiere, è di rifiutare la comodità…. La comodità mi angoscia”. L’icona Lindon si riscopre di corpo e carne, lavora sulla concretezza spigolosa dei problemi e dei sentimenti. E trova una verità e un’identità che, sebbene lo proiettino lontano dalle incontenibili e rivoluzionarie esuberanze di altri grandi interpreti – Mathieu Amalric su tutti, l’inafferabile –, soprattutto lo mettono al riparo dai compromessi, dalle facili scelte di un manierismo di mestiere.

la loi du marchèLindon non gioca e non bara.Cerco di dare sostanza a un ruolo con il mio modo di muovermi, di parlare, di rendere questo personaggio unico”. Per questo, forse, non è mai stato amato dalle giurie, dai grandi premi. Anche perché non ha il vizio di stare al centro, appare sempre al lato, al margine della scena e delle vicende drammatiche. Una specie di padre, di fratello maggiore, di guida precaria, dubbiosa ma fedele. Uno degli esempi più rigorosi, commoventi e abissali di un’umanità al bivio, costretta all’angolo dalla vita, in una situazione lavorativa e sentimentale precaria. Ma capace di reagire tuttavia con la determinazione del quotidiano, con il coraggio della solidarietà e di scelte morali non pacifiche. Un tipo umano che trova le sue più compiute incarnazioni negli ultimi straordinari film, quelli interpretati per Philippe Lioret, Welcome, Tutti i nostri desideri, e per Stephane Brizé, Mademoiselle Chambron, Quelques heures de printemps, fino a La loi du marché, che sembra il compimento di un percorso. Solo un uomo in mezzo agli altri, nel gorgo della crisi. Dramma sociale scontato, come dicono i critici smaliziati, politico romanzesco? Forse, ma soprattutto un cinema che ci tocca, che racconta qualcosa di noi, che sta dalla nostra parte. Un cinema che assorbe la vita e agisce sulla vita. Esattamente come il vertiginoso Pater di Alain Cavalier, storia di un rapporto a due, tra un padre e un figlio, un regista e un attore, un presidente e un ministro. Finzione che supera le barriere della struttura e si fa visione politica. “Un film a une mission. S’il fait couler de l’encre, il peut faire de la politique”. Lindon alla guerra. Palma d’oro oggi, domani e sempre.

 

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