Pesaro 50+1 – Diario della giornata (4)

Due esordi dal cinema russo declinato al femminile. Si tratta di due prove già mature, che confermano le qualità di quel cinema troppo lontano dai nostri sguardi quotidiani.

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21 Den', Dondurey

21 Den’, Dondurey

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La contenuta, ma artisticamente ricca, delegazione di registe russe, ospiti del Festival di Pesaro, guidata dalla sempre attiva Irina Borisova della Direzione dei programmi internazionali, con le loro opere ha sempre e sicuramente arricchito il panorama del Festival in questi anni. Il cinema russo, così scarsamente presente nella nostra distribuzione, ma così ricco e variegato nella sua produzione, è diventato una sorta di fiore all’occhiello per il Festival, costituendo questa una delle poche occasioni (l’unica?) in cui un’intera sezione ai film di quelle aree geografiche.
Anche in questa edizione la selezione diviene opportunità per saggiare la qualità degli esordi con una sezione che ha offerto la possibilità di vedere all’opera due interessanti esordi al femminile che, a visione conclusa, confermano l’ottima qualità di questo cinema confermando anche il rammarico che questi film siano così lontani, purtroppo, dai nostri orizzonti cinematografici quotidiani.
Tamara Dondurey e Sof’ja Cernyševa sono due giovani registe infra trentenni, che hanno alle spalle studi specifici di cinema secondo le regole e le qualità di quell’importante tradizione. D’altra parte i frutti di questo lavoro preparatorio si vedono tutti nei loro film.
Sicuramente a Tamara Dondurey sarà anche servita l’attività di critica che ha praticato per un certo tempo. Il suo film 21 Den’ (21 giorni), che è anche il suo saggio di laurea, è il racconto della sua esperienza all’interno di una casa di riposo per anziani infermi, nella quale, però, gli ospiti possono soggiornare per 21 giorni per dare modo ai parenti che li assistono di avere una pausa di riposo.
In origine il film avrebbe dovuto essere un’indagine sulla dottoressa olandese che dirige la struttura, avendo poi, per ragioni logistiche, ripiegare sul racconto delle vite e dei ricordi di alcuni degenti. La mdp di Tamara Dondurey coglie la rassegnazione al dolore, ma il dato più rilevante che emerge guardando le immagini del film è il rispetto connaturato allo sguardo dell’autrice che non è mai invadente, ma sempre molto rispettoso delle condizioni in cui si trovano le persone che sono sotto l’obiettivo della sua macchina da presa. Questi film comportano rischi notevoli quanto ad etica dell’immagine. Il rispetto della giovane regista espresso in forme così contenute indica la qualità degli insegnamenti ricevuti nell’Accademia che ha frequentato. Nasce così un film che quantunque, così come dalle sue stesse affermazioni, è un film sulla vita, non può essere disgiunto da una prossimità della sua conclusione, ma questo non ne fa un film doloroso, poiché i protagonisti sono colti sempre nei momenti in cui manifestano una propria forza interiore che per un momento sembra vincere la malattia. Tamara Dondurey supera, quindi, a pieni voti questa sua prima prova, tenuto conto anche del difficile compito assegnatole.
Di altra natura è il film di Sof’ja Cernyševa, Konec epochi (La fine di un’epoca). Siamo,

Konec epochi

Konec epochi

infatti, di fronte ad un film di fiction e la sua media durata (38’) lo pone a metà tra un corto ed un lungo metraggio.
La storia è quella una promettente dottoressa ebrea medico tirocinante in un ospedale di provincia nel 1952 poco prima della morte di Stalin. Le persecuzioni antisemite mettono in crisi la sua vita non solo professionale, ma riceverà sostegno ed aiuto solo dalla sua domestica alla pari, considerata da tutti una pericolosa poco di buono, ma affezionata e rispettosa della giovane dottoressa che l’ha accolta, tutto tratto da una storia vera.
Le migliori qualità di questo breve film risiedono nella capacità di sintesi narrativa che nulla toglie al respiro della storia, nella bella qualità scenografica e d’ambientazione che restituisce il clima della provincia russa, così come appartiene al nostro immaginario, e nell’ottima qualità della fotografia che nei toni leggermente virati diventa immagine dal bel sapore d’epoca, che raramente si ritrova così puntuale nel cinema contemporaneo. Tutte queste qualità messe insieme fanno de La fine di un’epoca un film godibile in equilibrio perfetto tra la commedia e il dramma nel quale i toni sfumati di entrambi i generi contribuiscono a riprodurre una scrittura fatta con mano sicura e dai chiari intenti narrativi. Né la brevità, come dicevamo, va a scapito della resa finale. Ci sembra quasi difficile immaginare il film con una durata più lunga vista la sua compiutezza narrativa.

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