(unknown pleasures) Tokyo Family, di Yoji Yamada

Il remake dichiarato del capolavoro di Yasujiro Ozu, Viaggio a Tokyo, affonda lo sguardo nelle lacerazioni del Giappone di oggi, ferito dal disastro di Fukushima e dallo tsunami dei rapporti

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I coniugi Hirayama si muovono dalla loro tranquilla isola per andare a trovare i figli stabilitisi nella capitale. Il figlio maggiore, Koichi, è un medico generico, che esercita in periferia. La secondogenita, la pettegola Shigeko, gestisce un salone di bellezza. L’ultimo figli, Shoji, invece, vive alla giornata e si arrangia allestendo palchi per gli spettacoli teatrali. Purtroppo al loro arrivo in città, gli anziani coniugi non trovano esattamente l’accoglienza che si aspettavano. Ognuno dei figli è preso dai suoi problemi e non ha tempo per badare ai genitori.

Il remake dichiarato del capolavoro di Yasujiro Ozu, Viaggio a Tokyo, film del quale proprio Yamada era stato assistente alla regia, affonda lo sguardo nelle lacerazioni del Giappone di oggi, ferito dal disastro di Fukushima e dallo tsunami dei rapporti. Ma in realtà, pur essendo passati sessant’anni esatti d’allora, non è cambiato molto, se non che la solitudine si è fatta più sorda e il tempo scivola via dalle mani più in fretta. In effetti, rifare oggi Viaggio a Tokyo significa affermare che Ozu aveva già capito tutto di questa ferita profonda, ne aveva già raccontato l’incubo oscuro, nonostante il formalismo perfetto, la gentilezza di tono. Quella composizione armonica del quadro, quel rifiuto della concezione stessa del conflitto (per cui due persone non dovevano mai guardarsi frontalmente), quel ritorno all’unità delle cose, non poteva, comunque, negare l’esistenza della frattura, colmare la distanza tra le persone, curare il dolore della perdita. Ozu ha raccontato lo spirito, ma colto esattamente l’essenza del mondo e la deriva del presente. E allora è lui il padre necessario di tutto il cinema giapponese a venire, di quello più classico e di quello più rabbioso e rivoluzionario (Oshima, Wakamatsu).

tokyoOvviamente l’omaggio di Yamada al proprio maestro non è un esercizio sterile, un’imitazione impossibile. Del resto dopo oltre settanta film, quale altro stile potrebbe avere, se non il suo? Semmai Yamada è l’anello di congiunzione tra Ozu e Kore-eda. Ritorna a terra e traccia il percorso che va dalla perfezione della forma alla traboccante poesia della quotidianità, riconosce i segni dell’eterno nella fugacità del presente e l’eccezionalità del contemporaneo nel continuo ritorno del medesimo. Quei convenevoli, quegli inchini, quei pudori eccessivi, che sembrano così fuori tempo, fuori dall’orizzonte del nostro sguardo, si sciolgono nel pianto di gioia e di dolore, nelle dichiarazioni a cuore aperto. La forma è sostanza e il modo è la cosa. Yamada, nonostante sia assolutamente radicato nel suo mondo, racconta di noi, dei nostri silenzi ostinati, dei nostri egoismi, delle distrazioni e distorsioni, degli slanci trattenuti, degli orgogli inutili, dei desideri di libertà e indipendenza e del richiamo delle convenzioni. E quella gentilezza indiscutibile di Shoji “la pecora nera”, la sua migliore qualità, ereditata dalla madre, è la gentilezza stessa di Yamada, che, con lo sguardo e il tocco, abbraccia tutti. Pur sapendo da che parte stare, non accusa. Perché è un padre che guarda il mondo attraverso l’occhio dei figli. Non ha bisogno di urlare, forzare la mano. Sa che la morte è ovunque e non occorre invocarla. E sa, d’altro canto, che la bellezza è ovunque, in un semplice gesto, come in un vecchia Fiat 500 arrugginita. Perciò non serve l’artificio. Una lezione immensa per questo tempo triste di sguardi freddi.

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