Terminator Genisys, di Alan Taylor

Questo Terminator (Genisys) ha decisamente perso il fascino perturbante dell’alterità tra umano e artificiale. Solo il corpo iconico del vecchio Schwarzy resiste nel Tempo come leggera reliquia

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La domanda (ri)sorge di nuovo, come il mitico T-800: ma questo Genisys, esattamente, che capitolo è della saga di Terminator? Sì perché dopo innumerevoli battaglie legali sui diritti del franchise, che hanno portato a diversi stop and go (Salvation doveva essere il primo di una trilogia con McG regista, evidentemente non è stato così), ora si azzera nuovamente tutto e si torna all’immaginario cameroniano dei due magnifici capostipiti. Stiamo al gioco anche noi. Il Giorno del Giudizio c’è stato (nel 1997? Forse…) e John Connor (un inquietante e convincente Jason Clarke) è il capo della resistenza che con fare messianico incita gli umani contro le spietate macchine “connesse” alla matrice Skynet. Quando la dura battaglia finisce con la vittoria finale, però, ci si accorge che Skynet aveva già provveduto a mandare indietro nel tempo (nel celeberrimo 1984) un Terminator per uccidere Sarah Connor. Stiamo parlando, ovviamente, del giovane Schwarzenegger clonato che “appare” sulla Terra nell’identica scena iniziale del film di Cameron. I’ll be back again? Il tempo ciclico ritorna? Il giovane e idealista Kyle Rees, che ancora non sa di essere il padre di John Connor, avrà l’identica missione del vecchio 1984? No, ovviamente: Skynet ormai domina il Tempo, crea universi paralleli (dal vago sapore zemeckisiano) e cambia il “fato” dei protagonisti mutando il loro passato e le nostre coordinate di spettatori. Sarah Connor (bella ed efficace Emilia Clarke, ma quanto ci manca Linda Hamilton!) sa già “tutta la storia” in questo nuovo 1984…è stata addirittura allevata da un Terminator, il vecchio papà Schwarzy, e ora la sua missione diventa fermare la nascita di Skynet e evitare il giorno del Giudizio. Ma come fare? Anzi, pardon, quando fare? Fermiamoci qui.

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terminator-genisysAllora: il problema dei due Terminator post-cameroniani firmati da Mostow e McG (entrambi molto interessanti e a loro modo riusciti) era innegabilmente l’impossibilità di creare nuove ramificazioni a un immaginario granitico e visionario come quello del capostipite. Ma se in quei due casi il lavoro di forzato “stiracchiamento” di un’idea veniva eseguito con innegabile maestria, questa volta è proprio la filosofia di fondo a lasciare un po’ perplessi. Tutto l’immaginario fantascientifico degli ultimi 30 anni viene chiamato-in-causa sin troppo schematicamente: i ritorni al futuro alla Zemeckis, il lato oscuro di John Connor alla Star Wars, il buddy movie fantascientifico riciclato da Michael Bay (e citato apertamente in due occasioni), la spietata Skynet come variazione su tema della wachowskiana Matrix, infine il letterale saccheggio dai due film di Cameron con tanto di vertiginoso corpo a corpo tra il vecchio e “buono” Schwarzy vs il giovane e “cattivo” Schwarzy ricreato in CGI. La riflessione del film di Alan Taylor, allora, si fa indirettamente interessante: Genisys segna l’impossibilità ormai endemica di andare avanti nella creazione, in un film/manifesto del riciclo cronico di materiali non più ri-configurati in maniera anarchica e personale (come nel cinema postmoderno anni ’80 di Zemeckis) bensì catalogati e rimessi in circolo senza nessuno sguardo soggettivo. James Cameron eleva(va) visionariamente il proprio presente “immaginando” un futuro possibile per il cinema e per i rapporti umani; Alan Taylor non fa altro che riciclare riflessioni teoriche ed estetiche trite e ritrite sul suo/nostro presente senza consegnarci in cambio una rinnovata esperienza visiva che ne giustifichi lo sforzo (come nei robottoni di Bay, appunto).

Terminator 5Ecco il cuore del discorso allora: rispetto al 1984 di Cameron si è decisamente perso il fascino perturbante dell’incontro/scontro uomo/macchina. Ossia di quell’alterità tra umano e artificiale che i suoi avatar continuano straordinariamente e ostinatamente a sentire come un’urgenza. Perché a dispetto di qualsiasi salto di paradigma digitale è ancora “I see You” l’unica cosa che conta. Qui invece sembra tutto pre-visto da Skynet, forse parente di internet, comunque indistintamente già(tra)noi. Cosa ci resta? Nell’appesantito gioco di rimandi (simil-nolaniano per la “precisione” chirurgica del meccanismo) il corpo “vecchio ma non obsoleto” di Schwarzenegger resta l’unica “reliquia di un tempo passato” (parole di John Connor) che ci fa ancora vibrare di gioia. Arnie e la sua divertente artrite da Terminator, con le sue facce comiche da slapstick pura, i suoi tormentoni indimenticabili piazzati lì come souvenir, insomma ogni movimento o sguardo diventa un magnifico manuale da Star come (fatalmente) il cinema non può più sfornare. Il corpo iconico di Schwarzy, allora, è veramente l’ultimo baluardo di un immaginario che cerca il suo referente nei desideri e negli incubi di un pubblico armato di sorrisi e pop corn… il resto, tutto intorno, ci appare subito come una stanca genisys pronta a ricominciare all’ennesimo start. Hasta la vista.

 

Titolo originale: id.
Regia: Alan Taylor
Interpreti: Arnold Scwarzenegger, Emilia Clarke, Jason Clarke, Matt Smith, Jai Courtney, J. K. Simmons
Origine: Usa 2015
Distribuzione: Universal Pictures
Durata: 119′

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