True Detective 2, episodio 6. Church in Ruins

Sempre più noir. L’indagine di Church in Ruins s’indirizza verso un perturbante potere occulto, indefinibile, sciogliendo ogni coordinata nelle dolorose digressioni sulla sfera privata di ognuno

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È questo che fa il dolore, ti fa vedere cosa hai dentro. Non ha mai dubbi il boss Frank Semyon, sa bene che dovrà lottare contro tutti i fantasmi del (suo) mondo per legittimare il business, fuoriuscire dal nero di Vinci e diventare un “uomo migliore” come dice al figlioletto di un caro amico ammazzato. Qualcosa sta cambiando. Dopo il pazzesco turning point della quarta puntata e il post-trauma della quinta, ormai si fa tutto terribilmente personale in questo sesto episodio. Certo gli echi del passato turbolento dei nostri quattro anti-eroi (famiglie distrutte, omicidi, prostituzione, guerra in Iraq, malavita) erano già ben percepibili tra le righe del loro (inter)agire, ma in fondo sempre sottilmente rimossi nell’azione diretta all’obiettivo comune. Oltre la soglia di casa Semyon, invece, che Velcoro oltrepassa perché “dobbiamo parlare” c’è il ribaltamento di prospettiva dell’intera serie. Il nero è ormai dappertutto. E il mcguffin iniziale innescato dal ritrovamento del corpo di Ben Caspere viene sempre più relegato a motivo sfumato, confuso, non più distinguibile dai propri fantasmi interiori. “Potresti essere uno degli ultimi amici che trovo”, “e non sarebbe una cazzata?”.

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Sempre più noir (con echi di Ellroy certo, ma anche di un’intera generazione di registi-sceneggiatori settanteschi capeggiati da Paul Schrader e Robert Towne) distillato alla sua radice più cinematografica. In questo Church in Ruins (episodio diretto dal regista di Repo Man Miguel Sapochnik) l’indagine dei tre investigatori s’indirizza verso un potere occulto, dai tratti indefinibili, sciogliendo ogni coordinata nelle lunghe digressioni sulla dolorosa sfera intima di ognuno. Ray Velcoro assurge ormai a statuto di disperato loser schraderiano votato consapevolmente al martirio per salvare un’unica anima, quella di suo figlio, nonostante ogni verità. E si fanno sempre più insinuanti anche le dissolvenze incrociate tra i volti in primo piano e i plongée dall’alto del reticolo urbano, con un sonoro animalesco che associa la giungla d’asfalto alle belve feroci che la abitano. Ben oltre la soglia di casa, certo, sino al buio pesto dell’immagine nella lunga e incredibile sequenza finale del “party esclusivo” con notabili e prostitute: una red room dagli evidenti umori lynchani in un crescendo musicale che ricorda le ossessioni di Bernard Hermann. Eyes Wide Shut, occhi-aperti-chiusi sul corridoio del sesso, nei 15 minuti allucina(n)ti di Ani Bezzerides che rimuove dal campo l’indagine/mcguffin e schiude i suoi perturbanti abissi privati sino a deformare anche il nostro sguardo. C’è luna piena là fuori, il sole a Vinci non sorge ancora, e allora “…I had to leave my life behind, the story’s told with facts and lies, you own the world so never mind!”.

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