Michael Cimino – La torre di Babele

Il Festival di Locarno lo festeggia con il Pardo d’onore. Ma resta l’autore più inafferrabile del cinema degli ultimi quarant’anni, il più devastante e il più disastrato

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Il Signore disse: “ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”.

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L’altro giorno rivedevo L’anno del dragone, il film su cui, senza dubbio, mi son più consumato gli occhi. E per la prima volta mi sono soffermato su una cosa a cui non avevo mai prestato molta attenzione. Stanley White, questo incredibile Mickey Rourke con i capelli d’argento, entra in scena di spalle, come un intruso che irrompe nell’inquadratura e la squarcia. Il finale, invece, si blocca sul suo volto infangato, sui capelli scombinati, su quella andatura strascicata dopo il rischio del linciaggio. Un’inquadratura congelata sul suo mezzo sorriso, lo sguardo ancora triste, ma intenerito, quasi sollevato. È un po’ il contrario di ciò che accade all’inizio e alla fine di Sentieri selvaggi – probabilmente il film su cui Cimino più si sarà consumato gli occhi. L’eroe entra e si “allontana” da noi. E poi quando esce, lo vediamo riavvicinarsi. Finalmente riconoscibile, finalmente nostro. A rigor di logica, dunque, noi siamo fuori dal set, dall’inquadratura, fuori dal cinema. E il film è una parentesi, un distacco. Qualcosa a cui non apparteniamo e che non ci appartiene, oltre la concretezza delle nostre esperienze. Al limite è qualcosa che possiamo solo spiare, intravedere da lontano, come una pausa nel tempo, un tuffo in un’altra dimensione. Fantascienza, già. Cinema d’evasione… Eppure L’anno del dragone è ogni volta un colpo al cuore così violento e spaventoso, concreto e tangibile, da non poter esser solo immaginazione, racconto, parentesi. No. La linea di confine tra il dentro e il fuori è saltata. Al punto che potremmo rovesciare completamente il discorso e immaginare tutto il percorso di White come un avvento, una venuta al mondo, a noi che lo attendiamo in un altro spazio, finalmente libero dalla colpa e dall’ossessione. Ma è vero? Ma poi che eroe è un poliziotto insopportabile, violento e razzista, che mette tutti nei guai, finisce nel fango ed esce con le ossa rotte? Mi ricordo di una visione collettiva anni fa, a casa di amici, e una ragazza disgustata, che non riusciva a percepire lo scarto (che ancora c’è, magari) tra il quotidiano e le immagini, insisteva: “è una persona orribile”. Io mi incazzavo, per me era sempre stato il massimo. Ma compivo anch’io la stessa forzatura: la vita, i film…

l'anno del dragoneTutto è contradditorio e strano in Cimino, eppure… eppure da tempo mi sembra l’apoteosi di tutto ciò che desidero, penso e immagino sul cinema. Al punto che oggi, 38 luglio, data impossibile, mi ritrovo, mio malgrado, a scriverne e vorrei spaccare la tastiera, fino a far uscire il sangue dalle dita.
Cimino… certo la sua vita è un mistero, a cominciare dalle versioni sulla data di nascita: 1943, 1952, o più verosimilmente 3 febbraio 1939 come sembra dire l’anagrafe. I racconti sulla famiglia “indifferente”, il padre che guidava le bande musicali e la madre che disegnava vestiti. E poi la gioventù irrequieta, gli studi di architettura, la pubblicità, il cinema, il trionfo de Il cacciatore, il silenzio stampa dopo il disastro del 1980, l’impenetrabilità della vita privata, i segreti sulle operazioni di chirurgia estetica, sul corpo in perenne trasformazione, inafferrabile come i film senza director’s cut. E poi i tanti bocconi amari, i progetti nel cassetto, le sceneggiature e le promesse, Delitto e castigo, La condizione umana. Fino alle lacrime, commoventi, dinanzi al pubblico di Venezia tre anni fa, dopo la proiezione de I cancelli del cielo. Cimino è l’autore più inafferrabile del cinema degli ultimi quarant’anni. Eppure il più devastante e il più disastrato, il più antico e il più avveniristico. Probabilmente una persona insopportabile, egocentrica, pretenziosa, come dicono in molti. E mi viene in mente, a tal proposito, il racconto di Willem Dafoe, sbattuto fuori set di Heaven’s Gate, in cui figurava da comparsa, per una risata fuori posto. Un sognatore folle e megalomane, come quel Ludwig che tanto piaceva a Luchino Visconti, uno dei riferimenti più diretti, citati e amati. O magari solo un grande creatore di forme, talmente ossessionato dal mito della perfezione, da esserne mangiato vivo.
michaelEcco, se davvero c’è un “problema Cimino”, è proprio in questo peso insostenibile del mito. Da un lato l’America, coi suoi sogni irraggiungibili di libertà, opportunità e condivisione, terra promessa in cui i destini dell’individuo e della comunità coincidono. Dall’altro il Cinema, quello degli apparati produttivi imponenti, quello della storia gloriosa e maledetta di Hollywood, quello dei grandi autori e delle grandi forme, dei Ford e dei Vidor. Per Cimino non esiste altro. Ed è forse per questo che, a differenza di Coppola, è incapace di adeguarsi ai tempi che cambiano, alle trasformazioni tecniche, di immaginare “la leggerezza” come un’opportunità, la povertà come un’opzione.
Non sembra esserci la teoria in Cimino. Non si avverte mai la pressione di un ragionamento intellettuale sul linguaggio, sul mezzo. Anzi… la grammatica è addirittura essenziale nella sua adesione mainstream: campo, fuoricampo, controcampo, montaggio, personaggio e ambiente, singolo e società. Tutto come da norma. Eppure tutto è fuori canone, fuori misura. A cominciare dal racconto, che si dilata e si contrae senza sosta, come fosse musica, come se seguisse il ritmo delle partiture di David Mansfield, delle sue ballate e cavatine. Proprio come nella resa dei conti de L’anno del dragone, con Joey Tai che scappa via e poi torna indietro. Ed ecco allora i tempi morti, le scene che non vanno da nessuna parte, i balli interminabili, le fughe in Thailandia e le corse in calesse.
il cacciatoreHeaven’s Gate è un film assurdo”, diceva Assayas con una punta di livore critico, “in qualsiasi versione lo si guardi, non funziona mai”. E per me, che non ho mai avuto l’ambizione di funzionare, ecco un altro motivo d’amore incondizionato… Il fatto, è che sotto il peso del mito, Cimino arriva a scontrarsi con l’utopia stessa del cinema. Per questo i suoi film toccano, con un’evidenza tragica irraggiungibile, la questione fondamentale: cioè quella dei rapporti tra la creazione e il creato, tra il set e la realtà. L’inquadratura come “porzione di mondo”, la pratica filmica come avventura da pionieri, ambizione di conquista, di dominio e controllo…

 

sunchaserCimino lotta con lo spazio. Si sa, è stato detto. Lotta per filmare tutto il filmabile, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande: il dettaglio di una goccia di vino su un vestito bianco e una battaglia riflessa nello specchio d’acqua, nuvole che attraversano il paesaggio e masse in movimento. In un solo film, in una sola scena si passa dal gigantismo al minimalismo. La Storia e l’amore, il Vietnam e gli amici, la Giustizia e la gelosia, Tachicardia e bradicardia. Quando fa fatica, interviene con la retorica (la nostra stessa retorica…). E spinge l’inquadratura fino ai suoi limiti naturali e anche oltre, là dove si intuisce la possibilità di una terza dimensione. Ma arriva sempre il punto in cui lo sguardo deve arrestarsi. Lo schermo fa una curva e il mondo si piega sulla linea dell’orizzonte. È il punto in cui le idee si confondono e in cui i ragionamenti cedono, in cui la concretezza realistica della prassi si trasforma in artificio fantastico, il vero in inverosimile. L’emozione forza le dimensioni, le flette. Non ci sono argini, direzioni certe, percorsi di entrata e di uscita. È come se fossimo nell’appartamento di Tracy Tzu, invaso da ogni lato dai cinesi della gang. Anzi l’interno diventa il luogo del pericolo, il covo dei banditi di Ore disperate. Non c’è riparo, casa sicura. Bisogna uscire per entrare e viceversa. E non c’è più distinzione tra l’apoteosi e il fallimento, tra il prima e il dopo. I flashback sono più veri del presente. “Dimmi, James, ricordi i bei giorni andati? – Ogni giorno che passa, sempre di più”. Crolla la Torre di Babele e Cimino, l’architetto, si muove nel caos delle lingue, tra i suoi pellegrini polacchi, russi, ebrei scacciati dalla terra del Signore, tra i suoi antenati italoamericani siciliani, tra i nativi malati di tumore. E lui è il primo colpevole, il primo immigrato clandestino in un cinema sempre più straniero. E nessun premio, per quanto giusto, riuscirà a riportarlo a casa.
Non è che sia morto il mito, come vogliono in tanti. Si è spento il sogno. Resta solo la sua nostalgia. E la speranza folle che tutto possa prendere di nuovo forma.

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