(unknown pleasures) Tsili, di Amos Gitai

In attesa di Venezia72. L’anima divisa in due di Gitai questa volta si ricuce attorno alla storia del suo popolo, al passato che ritorna in un film oscuro, affascinante e personalissimo

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L’anima divisa in due di Gitai questa volta si ricuce attorno alla storia del suo popolo, al passato che ritorna in un film oscuro e affascinante. Il cinema del regista israeliano ci ha ormai abituati ad una alternanza (mai meccanica o prevedibile) tra i due poli attorno ai quali soprattutto si sviluppa il suo cinema: la storia del popolo ebraico con le vicissitudini legate alle persecuzioni e il conflitto nell’area mediorientale. Tsili appartiene al primo dei due ed è tratto da un romanzo dell’ebreo–romeno Aharon Appelfeld, Paesaggio con bambina.

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Una ragazza si muove nel bosco, raccoglie sterpi, si ripara dalla pioggia. Poi arriva Marek giovane uomo con il quale condivide il nido che si era costruita. Lei è la custode dei luoghi, delle cose che gli abitanti del suo villaggio hanno lasciato per essere stati deportati nei campi. Lontano si sentono tuonare i cannoni. Quando finisce la guerra Tsili ritroverà gli scampati alla deportazione, ma un nuovo viaggio li aspetta.

Tsili ha tutte le caratteristiche per essere un’opera privata, personalissima e inizialmente quasi inaccessibile, chiusa com’è tra i gesti istintivi di Tsili e la chiusura teatrale dell’immagine che non sembra lasciare vie di fuga e quelle poche, ma delimitate dal suono sordo dei cannoni. Opera stilizzata e silenziosa che sceglie di raccontare attraverso il corpo martoriato di Tsili, interpretato da due attrici di età differente, la tragedia della diaspora, il dolore immenso dell’Olocausto.

Ecco quindi che Gitai depura la storia da ogni riferimento, ne fa un’esperienza sensoriale, insiste a fare sentire la pioggia, a scorticarci le mani con gli sterpi, a sentire sotto i piedi la terra della foresta. Non rende facile la vita allo spettatore e dissemina il suo film di una miriade di ostacoli, di misurate lungaggini, facendone un percorso irto e accidentato. Ma Tsili (personaggio nel quale si misurano i buchi generazionali di un’epoca e da qui la scelta di fare interpretare il personaggio a due attrici) riesce ad imporre la propria presenza e se il film di Gitai soffre di una certa chiusura al mondo, di una forma di misantropia visiva, rischiando una autoreferenzialità forse inattesa per un autore così cosmopolita, è anche vero che aderisce perfettamente a quanto ebbe a dire Philip Roth del romanzo di Appelfeld: “Tra tutti i libri di Appelfeld, è quello che presenta la realtà più dura e la forma di sofferenza più estrema“. Quella stessa sofferenza che Gitai sceglie di rappresentare attraverso il corpo nodoso del suo personaggio, quella stessa sofferenza inconsapevole che in filigrana si potrà leggere sui volti dei bambini nel breve documento finale che suggella il dolore di un mondo che stava scomparendo. Ma Tsili lo avrebbe vegliato e conservato per il futuro.

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