#Venezia72 – Jia (Famiglia), di Liu Shumin

Un affresco familiare costruito su gesti, momenti e mancanze, organizzato con occhio versatile e disposto a sorprendere. Evento speciale della Settimana della Critica

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Riaffiorano agli occhi numerose immagini già viste, mentre Jia si distende lentamente sullo schermo. Più che un già visto, la sensazione è che ogni spettatore possa depositare i propri ricordi personali o alcune memorie cinematografiche condivise (le mani di Jeanne Dielman, l’attesa di Hamaca Paraguaya)  sulle immagini di Liu Shumin. Un film on the road dove in realtà la strada non si vede mai, se non nell’ultima parte del film, prima con l’andamento di una placida passeggiata e poi con l’inaspettata frenesia di un finale che apre un nuovo spiraglio nella narrativa che ha dominato le quasi cinque ore di durata. La camera da presa registra infatti innumerevoli gesti, dialoghi, momenti di silenzio che costruiscono un affresco impalpabile di questa numerosa famiglia.

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C’è forse il tentativo di comprendere quanto di meccanico ci sia nelle mani che si muovono in cucina, preparano innumerevoli piatti, quanto amore o quanto risentimento attraversi queste dita. A differenza di molte rappresentazioni dove i sentimenti che animano le azioni sono nettamente scissi, Shumin riesce a cogliere nel loro amalgama naturale tutte le contraddizioni che stanno alla base delle persone, ancor di più se viste nell’ambiente familiare. Il suo è un occhio versatile, che non si costringe entro coordinate imposte come ci si potrebbe aspettare. Piuttosto, egli riesce ad adattarsi ad ogni scena, anche con variazioni quasi minime, ma in grado di offrire un’immagine sempre controllata. Ma è questo controllo che tutto sommato tradisce l’essenza cinematografica di Jia, che pur accostabile per esempio ai due Oxhide di Jiayin Liu, non raggiunge la stessa portata terrificante consentita dall’occhio documentario. È forse attraverso questa costruzione fittizia che si rende evidente l’inquietante capacità del cinema di rendere estetizzabili e addirittura piacevoli situazioni familiari e ritualizzate. Per quasi tutto il film ogni personaggio sembra non riuscire a reggere più che una fugace occhiata non corrisposta al volto dei familiari. Solo in alcune scene gli occhi riescono a sostenersi reciprocamente, e forse non a caso sono momenti di dialogo sulla famiglia stessa (il nonno che elenca gli zii alla nipote, la nonna che interroga il figlio circa le possibilità di un nipote). Lo sforzo di Shumin sta allora nel raccogliere tutti questi sguardi, diretti in infinite direzioni diverse, e riuscire comunque a farli incontrare, fosse anche per pochi secondi. Se sull’osservare è stata girata una delle migliori scene del cinema contemporaneo, anche qui i momenti in cui gli anziani coniugi si fermano a osservare il mondo che li circonda, che sembra altrimenti non esistere al di fuori dei loro sguardi. Nonostante l’andamento calmo, è infatti raro che la mdp rimanga su una scena dopo che i personaggi ne sono usciti. Come dire, l’occhio rimane per certi aspetti subordinato non tanto alla narrazione ma almeno alla presenza scenica dei protagonisti, non riservando poi attenzione a ciò che accade aldilà delle loro vicende, negando insomma l’apertura a una (seppur fittizia) vita aldilà della narrazione.

 

Solo verso la fine del film, dopo che gli intermezzi neri si fanno sempre più frequenti e premonitori, una casuale scena all’aeroporto anticipa ciò che sarà intrapreso dal finale, l’uscita dai binari finora seguiti per immergersi in un’altra possibile storia, un’altra famiglia, un altro modo di amare.

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