#Venezia72 – Everest, di Baltasar Kormákur (Fuori Concorso)

Spettacolare “Blockbuster del XXI secolo” Everest sembra invece rincorrere il sogno epico della sfida, antitecnologica, con se stessi, producendo squarci di emozioni e visioni forse, fino a qualche anno fa, impossibili

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C’è qualcosa di sottilmente ambiguo, nascosto, quasi scaramantico, in questa apertura della 72a Mostra del Cinema, la quarta diretta da Alberto Barbera. Forse nel titolo fatto di una sola parola (come Gravity, come Birdman…), forse nell’aspettativa di replicare “l’effetto Oscar” sul film che apre il Festival. Oppure, più cinematograficamente, nel tentativo di replicare, con sguardi diversi e lontani (due messicani, un islandese), quel cinema “vertiginoso” che Cuaron e Inarritu inseguivano l’uno scaraventandoci nelle derive dello spazio extraterrestre, l’altro in quelle dello spazio (scenico?) da manipolare con la macchina da presa. Cinema che non sta ai patti con lo spettatore, lo scavalca ed inganna, dolcemente e perfidamente (indovinate voi chi dei due messicani…), ad ogni fotogramma, con l’ambizione precisa di restituire fisicamente il vuoto interiore dei protagonisti.

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Everest, di Baltasar Kormákur non resiste però a questa sfida, o meglio sembra proprio non preoccuparsene, pur lavorando su un territorio (la montagna più alta del mondo) che è luogo di “vertigini” per eccellenza.

Raramente per un film che in fondo è un “Blockbuster del XXI secolo” (con tanto di cast spettacolare con attori come Jason Clarke, Josh Brolin, Robin Wright, Michael Kelly, Sam Worthington, Keira Knightley,  Emily Watson e Jake Gyllenhall), avvertiamo il senso della “caduta”, il pericolo in agguato ad ogni passo, poche volte le inquadrature ci restituiscono quel vuoto che, lassù a quasi 9.000 metri, è a portata di mano (o di piede, fate voi).

No, Everest sembra invece rincorrere il sogno epico della sfida, antitecnologica, con se stessi. Con i propri limiti, con le proprie frustrazioni, passioni, depressioni. Ognuno dei partecipanti alla Grande Scalata del 1996 sembra voler scacciare da se degli incubi nascosti: la risposta alla domanda fatta dallo scalatore giornalista Jon Krakauer (Michael Kelly) “perché volete scalare l’Everest?”, “Perché è lì?”, sembra perfettamente raccontare l’esistenza di un vuoto interiore da voler riempire con il proprio misurarsi con la natura e con il Mondo.

Everest, due ore di spettacolari salite e discese lungo il crinale del monte, racconta della spedizione sfortunata del 1996, all’epoca considerata la scalata più letale nella storia dell’Everest (prima della tragedia dell’aprile del 2014 che uccise 16 scalatori). Si appassiona a raccontarci le storie intime di un gruppo di persone che scalarono la montagna per conto di un’agenzia specializzata, dispiegando grandi mezzi visivi e interpretativi, e tuttavia riuscendo a mantenere un profilo basso dal punto di vista della retorica, forse in parte aiutato dal fatto di raccontare una storia vera, dove moglie e figli ed alcuni dei protagonisti sono ancora memoria e corpi vivi della vicenda.

everest2

Ma quello che colpisce, e in parte stupisce di questo “disaster movie” d’autore, è proprio l’approccio in “sottrazione” operato da Kormákur, che pure si lascia andare a momenti, questi si davvero vertiginosi, come nell’ultima telefonata tra il protagonista interpretato da Jason Clarke e la moglie (Keira Knightley), in un delirio meraviglioso post-mèlo, gelido e bollente allo stesso tempo.

Mentre i personaggi godono dell’amore incondizionato del regista (il che li rende tutti dannatamente unici), il film si cala dentro al paesaggio innevato e gelido della montagna, restituendone l’aura mi(s)tica e maledetta, facendoci respirare in tre dimensioni, percepire il profumo dell’aria rarefatta, del ghiaccio tra i capelli, non scendendo mai nell’iconografismo spicciolo (una volta si diceva “da cartolina”), ma anzi donando al paesaggio uno dei ruoli principali del casting, neanche fossimo in un vecchio western di Anthony Mann (o in Narciso Nero, di Powell e Pressburger).

Ma come ha ben raccontato l’alpinista Simone Moro, in montagna, La vera “vetta” però non è la cima, ma il campo base, perché in cima sei solo a metà “strada”, poi devi farti la discesa, il campo base è la finish-line”. Arrivare in cima, mettere la bandierina, è solo una parte dell’avventura. Perché poi dobbiamo tutti, sempre, tornare a casa.

EVEREST-Jason-Clarke-crop

Sembra di stare sulla Luna”, dice uno dei personaggi del film, nel finale, e Everest sembra davvero la storia di un “viaggio sulla Luna” (quanto è diverso il paesaggio e come mutano i nostri corpi in quei luoghi), rammentando in alcuni tratti anche il celebre, sfortunato ma alla fine fortunato, ritorno dell’Apollo 13 dalla missione lunare, soprattutto in quel continuo contatto radio tra gli scalatori e la base.

Ma quei corpi raggelati, rannicchiati nel ghiaccio perenne, sono rappresentati con un’umanità di sguardo e una dolcezza visiva da accapponare la pelle. Corpi che sono stati portati via, ma anche corpi che sono ancora lì, nel ghiaccio. O corpi miracolosamente rialzatisi, quasi resuscitati, e meravigliosamente tornati a casa, certo non sani ma almeno salvi.

Insomma questo filmone d’apertura non lascia indifferenti, produce squarci di emozioni e apre a visioni forse, fino a qualche anno fa, impossibili. Gli effetti speciali, forse nella nuova direzione post Mad Max, sembrano come “trattenuti”, ridotti al minimo necessario (ovviamente si fa per dire, siamo sempre di fronte a una superproduzione hollyoodiana…). La meraviglia della visione non sta più nell’effetto ma, forse, nell’affetto. Piccola mutazione “umanista” del kolossal che forse solo così può provare a sostenere l’urto dell’immaginario dell’epoca delle serie TV.

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