#Venezia72 – Looking for Grace, di Sue Brooks

Presentato in Concorso Looking for Grace della regista australiana Sue Brooks. Peccato che vengano fuori pian piano le tracce di un’asfissiante costruzione a monte che inverte di segno il bell’incipit

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Australia, il viaggio, grandi spazi da attraversare. Il film inizia bene: una ragazza di 16 anni (Grace, in fuga dalla famiglia) incontra un ragazzo e vive la sua prima avventura amorosa. Lascia l’amica del cuore e insegue la crescita, la passione, immediatamente tradita però. E allora ecco gli incantevoli paesaggi australiani, il silenzio, la perdita, il deserto, il dolore, tutto tratteggiato in modo interessante nei primi quindici minuti. Cosa succede dopo? Succede che Sue Brooks (già regista di Japanise Story, e ora per la prima volta in concorso qui a Venezia) scopre le sue carte e ci fa vedere che film vuol fare: una costruzione narrativa scandita da capitoli ad incastri (vagamente à la Arriaga) che tornano costantemente indietro nel tempo e fanno ri-vivere quella strana giornata dal punto di vista non solo di Grace, ma anche della iperattiva madre (Rada Mitchell), del padre in preda a un esaurimento nervoso (Richard Roxburgh), del vecchio investigatore privato che la insegue con rudimentali tattiche (Terry Norris) e infine di un misterioso camionista che sarà centrale nella vicenda.

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Il tutto condito da una geometrica commistione di generi che varia dal teen movie esistenziale alla commedia degli equivoci, per arrivare infine ai toni di un dramma familiare d’altri tempi. Sulla carta poteva essere anche un’operazione interessante, peccato però che vengano fuori pian piano le tracce di un’asfissiante costruzione a monte che clamorosamente inverte di segno il bell’incipit: il film si rinchiude nelle case e nelle stanze, in inquadrature studiate al dettaglio dove gli attori possano “recitare” con ritmo perfetto e strizzare l’occhio al pubblico di riferimento. Stereotipi a pioggia sull’universo maschile, femminile, sugli anziani arzilli e sulla depressione giovanile, programmati come un metronomo di destini incrociati che depotenzia incredibilmente ogni identificazione con questi caratteri.
Sia chiaro: il film strappa qualche sorriso, sfrutta bene i suoi attori e sa anche regalare sparuti momenti di buon cinema. Ma a maggior ragione non si comprende la ragione di tutto questo: perché ogni potenziale slancio emotivo (la perdita, l’amore, il sorriso, il dramma) viene consapevolmente regolato, inscatolato e ridotto a puro déjà vu privo di forte appeal. Peccato.

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