#Venezia 72 – L’Hermine, di Christian Vincent

Prima, autentica, sorpresa del Concorso: fra il legal-drama e potenziale storia d’amore c’è tutta la forza di un film capace di amalgamare i toni con sapienza e sincerità

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L’Hermine, ovvero l’ermellino, è quello della toga che ogni giorno indossa l’integerrimo e severo giudice Racine, e che stavolta lo accompagnerà mentre presiede un processo per l’omicidio di una bambina di pochi mesi. Caso non facile, considerata la delicatezza del tema e la reticenza del padre imputato a collaborare. Ma la vera incognita è rappresentata da una delle giurate, con cui un tempo poteva nascere un sentimento poi negato dalle circostante. Fra i due estremi rappresentati dal legal-drama e dalla potenziale storia d’amore c’è tutta la forza dell’ultimo film di Christian Vincent, mai diviso fra i due opposti, ma anzi capace di amalgamare i toni con sapienza e sincerità.

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Il racconto è apparentemente secco, essenziale, ma in realtà capace di lasciarsi trascinare dalle emozioni fluttuanti di una vita raccontata come rappresentazione ideale dei principi, destinati però a intrecciarsi con i desideri nascosti e le possibili terminazioni di una società complessa. Le discussioni fra i giurati si alternano alla messinscena – letterale, viene palesemente definita come uno spettacolo – del processo. Da un lato, quindi il meccanismo un po’ autoreferenziale di una giustizia delle regole, che cerca dichiaratamente di non stabilire la verità, ma la perfezione formale dei suoi meccanismi e delle norme che regolano gli stessi; dall’altro gli scontri dialettici fra gli uomini, i ribaltamenti dei punti di vista interni ai ruoli dell’accusato e del colpevole. Su tutto si staglia il lavoro di cesello sul non detto, sulle microespressioni del volto, fra il sorriso radioso della splendida attrice danese Sidse Babett Knudsen e la maschera imperturbabile di un Frabrice Luchini al solito gigantesco nel passaggio degli stati d’animo e in grado di rompere la fissità del volto nel turbinare di emozioni che lo assalgono fra un’inquadratura e l’altra.

Alla fine si resta avvinti da una scrittura efficace che però sembra anche veicolata con sapienza dal consumato lavoro attoriale e di regia, dove si cerca l’increspatura emotiva più che l’esibizionismo dei sentimenti, come le piccole rughe che solcano il volto degli attori, cercate con occhio goloso, mai supponente, e dove la frontalità del punto di vista (quello giudice-pubblico) è rotta dagli sguardi trasversali dei giurati. E quando il racconto si apre alle piccole variazioni di tono, l’emozione scaturisce vibrante perché appare vera nella sua raffinatezza.

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