#Venezia72 – Bangland, di Lorenzo Berghella

Dalle Giornate degli Autori il film di animazione vincitore del premio SIAE colpisce per il linguaggio estetico visionario ed “esploso” ma mostra presto la corda del gioco allegorico-citazionista

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La storia del progetto Bangland è di quelle virtuose: Berghella, 25 anni, frequenta nella sua Pescara la scuola di cinema dei fratelli Di Felice, e tira fuori il cortometraggio di animazione Too Bad. L’esordio impressiona un po’ tutti, se ne parla bene, da lì nasce la webseries animata omonima: e arriva Gianluca Arcopinto. L’idea alla base di Too Bad diventa un film vero e proprio, finisce a Venezia, e vince anche un premio, col festival ancora in corso: il premio SIAE “per un talento emergente del cinema italiano” nella sezione delle Giornate degli Autori.
In effetti, il linguaggio estetico scelto da Berghella per la sua storia ha ancora un certo livello di novità nelle produzioni italiane, un’animazione visionaria ed “esplosa” che strizza l’occhio agli stilemi della graphic novel e punta a riempire il quadro di mille elementi dai contorni incerti e guizzanti, a qualcuno potrebbe far tornare alla mente il rotoscopio del Richard Linklater distopico di A scanner darkly.

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Il tratto e i disegni rispecchiano così il grande caos sotto il sole di Bangland, cittadina-metafora di un’America razzista, puritana e guerrafondaia tra le cui vie si incrociano in maniera violenta e letale i destini di autori di serie tv che sbeffeggiano i dogmi cristiani, killer siculi al soldo di telepredicatori vendicativi, strozzini senza pietà in crociata antipedofila, sbirri stanchi e disillusi con le ex-mogli assetate di assegni di mantenimento alle calcagna, più una quantità di piccole storie minori come il reduce impazzito che apre il fuoco all’uscita dal cinema, e una serie di riferimenti frullati tutti insieme ad eventi-chiave della storia degli States come un ipotetico attentato alla Statua della Libertà e un finale che tira in ballo addirittura l’iconografia dell’omicidio Kennedy.

Descritta così, l’allegoria – sublimata nella figura di Steven Spielberg presidente malefico degli Stati Uniti , trovata destinata a far inalberare noi spielberghiani che Steven presidente lo voteremmo subito – potrebbe sembrare divertente, soprattutto ai fan delle sortite più acide e disincantate di firme come Miller o Moore.
In realtà il meccanismo della multicitazione stratificata fino al punto di ebollizione e il calderone tarantiniano (ho tentato invano di resistere all’utilizzo dell’aggettivo, ma Berghella inserisce davvero troppi poster di spaghetti western e televisori che ne trasmettono le immagini, per non tirarti via la denominazione di bocca) di topoi neri-d’appendice mostrano la corda quasi da subito, e per un’opera che si impegna in maniera così appassionata e lodevole a dire qualcosa sull’oggi è un peccato risultare così malauguratamente fuori tempo massimo.
Il risultato somiglia infatti più di tutto a quell’incompreso capriccio bobdylaniano che fu Masked & Anonymous di Larry Charles, con cui spartisce l’afflato apocalittico-savonarolesco e il gioco di rimandi blues-psichedelici della colonna sonora fin troppo ammiccante.

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