#Venezia72 – A peine j’ouvre les yeux, di Leyla Bouzid

L’universo femminile è rappresentato come una forza dirompente tramite le due meravigliose protagoniste nel bel film di Leyla Bouzid presentato alle Giornate degli autori

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Tunisi 2010, quella che i media occidentali hanno definito come “la primavera araba” è alle porte, e l’adolescente Farah ne incarna suo malgrado le istanze, per la semplice ragione di cantare in una band che esprime i disagi della sua nazione, nonché nel non voler nascondere le proprie passioni, e rifiutare altri percorsi al di fuori da quelli da lei decisi.

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L’abilità della giovane regista Leyla Bouzid risiede tra le altre cose nel modo fluido e scorrevole ma non superficiale tramite il quale aggiunge elementi alla trama, che parte componendo il ritratto di un’adolescente e dei conflitti che deve affrontare per affermare se stessa, per poi ampliare gradualmente il quadro, includendo la rappresentazione degli effetti dirompenti della repressione politica sulle vite delle persone, ma lo fa senza tradire l’istanza di fondo nel voler rappresentare in maniera intima e realistica la giovane protagonista, che come ogni altra ragazza della sua età sogna, ama e vive. In tal senso l’intento della Bouzid risulta chiaro nel volerci mostrare “da dentro” la nascita di una rivolta, negli attimi cruciali che ne precedono la scintilla. Quella di Farah è una vera e propria guerra, svolta su più fronti che si rivelano interconnessi gli uni con gli altri (quello “naturale” del confronto con le restrizioni imposte dalla famiglia, e quello innaturale nel dover reprimere le proprie istanze di fronte alla cieca brutalità del potere), ma è combattuta con le armi della giovinezza, della vitalità, della gioia.

 

L’universo femminile è rappresentato come una forza dirompente, che tramite le due meravigliose protagoniste, Farah e sua madre Hayet, espone una visione della femminilità in cui l’autocoscienza e l’autodeterminazione non negano ma rinforzano la potenza dell’eros e della corporeità, che in un contesto come quello mostrato dalla Bouzid assumono un valore rivoluzionario. In tal modo la fisicità e la musicalità di Farah la rendono “colpevole” agli occhi del regime per la propria mancanza di limiti. Oltre a quello della regista sulla coppia di protagoniste, ancora più importante è lo sguardo di amore che la madre Hayet rivolge alla figlia, anche se la pienezza di tale sentimento emerge progressivamente, e con esso le sfumature di orgoglio e doloroso rispecchiamento.

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