#Venezia72 – The Endless River, di Oliver Hermanus

Il film più fischiato (finora) della competizione è un oggetto difficilmente incasellabile, non a caso andato incontro a un massacro critico prevedibile eppure non del tutto condivisibile

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Si comincia con una sequenza d’apertura che rimanda esplicitamente al classico, con i caratteri dei titoli di testa che sembrano uscire fuori dall’inquadratura, come se il cinemascope non bastasse a contenerli tutti; e poi i tramonti, gli spazi immensi della natura sudafricana, persino un esplicito omaggio alla sequenza più celebre di Sentieri selvaggi di Ford. Ma è soltanto un attimo, prima di cambiare registro: The Endless River lo farà più volte nel corso della sua durata, dapprima sfiorando il noir à la Dürrenmatt, poi guardando al melò, senza mai abbandonarsi ad alcun genere specifico. Il triplice omicidio di una madre e dei suoi due figli unisce le vite dei due protagonisti: il marito divenuto improvvisamente vedovo e la moglie del sospettato principale, i quali si ritroveranno ad affrontare la tragedia da due punti di vista differenti, fino a cercare di trovare insieme una via di fuga (impossibile?) dalla realtà che ha sconvolto le loro vite.

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Il film più fischiato (finora) della competizione è un oggetto difficilmente incasellabile, non a caso andato incontro a un massacro critico prevedibile eppure non del tutto condivisibile. Oliver Hermanus guarda molto in alto, lasciando che a parlare siano i silenzi e i momenti di stasi e senza spiegare nulla delle tante zone d’ombra che la narrazione accumula durante il suo svolgimento. Un thriller che non è un thriller, con la componente di detection volutamente smorzata a metà film per seguire il peregrinare a vuoto dei due protagonisti; è così però che anche The Endless River finisce per girare su sé stesso, senza una meta, accumulando aspettative (e presunzioni) senza riuscire a portarle a compimento.

Eppure sembra troppo facile arrendersi alle evidenze e rifiutare a priori il percorso suggerito da Hermanus: se è vero che ogni melò è una storia noir (o vicecersa), il suo film sembra voler abbandonare qualsiasi percorso precostituito per lasciarsi andare, libero, esimendosi dall’esprimere giudizi sulla natura e sulla morale dei personaggi. “E adesso dove andiamo?”, si chiedono nel finale. Già. Lo spettatore non sembra essere chiamato a far parte del loro viaggio, tanto sembra lontana (e inesplicabile) la loro destinazione. L’ambizione schiaccia il risultato, ed è innegabile come il tutto manchi di coesione e adeguata profondità. Eppure… Eppure uno sguardo sulla natura impenetrabile delle cose (del mondo, del dolore, dell’inspiegabile) c’è, nonostante tutto il resto. Da qui a considerarlo una delle cose peggiori viste alla Mostra quest’anno, quindi, ne passa.

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