#Venezia72 – Man Down, di Dito Montiel

Distrugge i codici su cui si basa, a partire da quello del ritorno dell’eroe, sospinto in un non luogo mentale che si traduce in un inganno narrativo forse fragile ma inquietante. In Orizzonti

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Riconoscere i propri santi, rinvenire i propri fantasmi: il cinema di Dito Montiel è sempre una traccia solcata nel mistero psicologico di esistenze duplici, complesse. La santità dei protettori corrisponde alla dannazione dei protetti e la relazione di scambio tra le due coordinate è spesso mobile, impari, imprevedibile. Non sfugge a questa regola nemmeno questo suo ultimo – scombinato, eppure tenero – film, Man Down: un “post traumatic drama” interpretato da Shia LaBeouf, che sin dal titolo gioca con il ribaltamento semantico delle parole, decodificando sentimentalmente un codice che sul terreno di guerra è segno di ferita o morte e che il marine Gabriel Drummer trasforma per il figlioletto Jonathan in una segreta dichiarazione di affetto. Il film, del resto, è tutto un percorso multiplo nella segretezza degli eventi, nella mascherazione psicologica e traumatica della realtà.

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kate mara e shia labeouf in man downNarrativamente Dito Montiel segue quella che, sin da Guida per riconoscere i tuoi santi, è la triangolazione classica del suo cinema: c’è la traccia del ricordo che produce un suo flusso di coscienza e ricade sulla linea narrativa del presente del protagonista, mentre il luogo dove tutto sembra (o dovrebbe) prendere senso resta lo spazio della narrazione… In Man Down la triangolazione lavora sulla terribile esperienza in Afghanistan di Gabriel, che in missione ha involontariamente provocato l’uccisione di Charles, suo amico d’infanzia arruolatosi assieme a lui. La verità che emerge da questo evento è terribile, non meno dura della morte dell’amico in sé, perché ha a che fare con il suo ritorno a casa, dal figlio che lo attende e dalla moglie che lo ha tradito. Montiel però costruisce il dramma sullo spostamento di segno del trauma, proiettando il ritorno dell’eroe in un confronto con un mondo postatomico, in un’America rasa al suolo da un attacco nucleare, popolata da sopravvissuti dispersi in un deserto urbano fatto di macerie, tra le quali si muove in cerca del figlio. Lo spiazzamento che questa triangolazione provoca a livello narrativo è l’aspetto più disturbante e al contempo ingenuo del film, che cerca nella confusione mentale del protagonista lo specchio in cui riflettere il disordine delle coordinate morali in cui si dibattono immancabilmente i personaggi di Montiel. Vero è che l’effetto complessivo è piuttosto fragile, incapace di trovare una coerenza espressiva nell’incoerenza che produce: l’aggancio oggettivo offerto dalla seduta con lo psicologo militare interpretato da Gary Oldman resta una sorta di cornice logica incapace di contenere il quadro complessivo. Ma va anche detto che Man Down è un film che distrugge i codici su cui si basa, a partire da quello fondativo del ritorno dell’eroe, sospinto in un non luogo mentale che si traduce in un inganno narrativo forse fragile (perché facile da scoprire), ma a suo modo inquietante. Shia LaBeouf ritorna con determinazione sul set del regista che per primo ha creduto in lui, e lo fa con la determinazione fragile e spavalda che ben gli riconosciamo.

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