#Venezia72 – Lama azavtani (Why Hast Thou Forsaken Me), di Hadar Morag

Volutamente sgradevole, sporco e affannoso, si configura sin dai primi minuti come un personale sguardo sofferto, supportato da una fotografia livida e un sonoro che domina e schiaccia. In Orizzonti

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Piegato in avanti, Muhammad cerca con tutto il peso del suo corpo di limitare le vibrazioni di un’impastatrice, che a velocità folle rimesta farina e acqua, schizzando di bianco i suoi vestiti, sollevando una nube di polvere bianca nella buia stanza soffocata dal rumore dei colpi.Già nei primi minuti del film questa incubatrice oscena, questo impasto spermatico incontenibile lascia già presagire il dramma sessuale che coinvolge il giovane protagonista (e la scena successiva, dove lo vediamo intento a masturbarsi, quasi richiama alla mente il Grégoir Colin di Nénette et Boni).

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Arabo a Israele, nel quartiere popolare di Hatikva, e figlio di un collaborazionista, Muhammad vive ogni giorno il dolore e la persecuzione. Passa le giornate nel retro delle botteghe, dove il rumore dei macchinari rende inutili le parole perché tutto è ridotto a cacofonico nulla. Gurevich è un uomo silenzioso, dal volto duro e segnato. Attraversa tutto il quartiere con la sua moto e si guadagna da vivere affilando coltelli. L’incontro tra i due sembra segnare nella vita di Muhammad uno scopo, una direzione da seguire che spezza la sua continua fuga alla ricerca di uno squarcio di pace, lontano dal dolore. L’adolescente imita i movimenti e gli atteggiamenti di Gurevich, cerca di inserirsi in uno spazio già scavato, un’alternativa alla sua identità. Un incontro che si sintetizza nelle scintille rosse della lama contro la pietra, lo stridore cancella le parole dalle labbra mentre le forti mani di Gurevich guidano quelle di Muhammad. Volutamente sgradevole, sporco e affannoso, Lama azavtani si configura sin dai primi minuti come un personale sguardo sofferto, supportato da una fotografia livida e un sonoro che domina e schiaccia i personaggi. Purtroppo la Morag sembra però troppo affascinata dai suoi personaggi, che segue a stretta distanza in maniera molto naturale, ma senza poi sviluppare in maniera soddisfacente il loro rapporto, rischiando presto la ripetitività. Per questo motivo la scena finale colpisce con violenza ma senza convincere del tutto. Il durissimo gesto d’evirazione che richiama il versetto biblico con cui si apre il film è di per sé devastante, ma avrebbe dovuto essere radicato in una struttura più articolata per non rischiare di apparire come una scelta strategica adatta a ridestare l’attenzione e creare un po’ di scalpore.

Estirpare una parte del proprio corpo percepita ormai come corpo estraneo, come un veicolo di sofferenza che incatena al desiderio, autodistruzione come liberazione. Ma la violenza, soprattutto sonora, scagliata anche contro lo spettatore, respinge più che coinvolgere, distruggendo forse volontariamente quanto costruito in precedenza.

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