#Venezia72 – Baumbach-Paltrow e il loro Brian De Palma sbiadito

Un ritratto incolore di uno dei nomi di punta del cinema statunitense, un compitino che ripercorre oltre 50 anni di carriera puntando ad arrivare velocemente alla fine. Presentato fuori concorso

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Forse non ci si aspettava un ritratto così da ‘scuola di cinema’ su Brian De Palma. Forse si voleva entrare nelle viscere del suo cinema e invece si è rimasti appena su una superficie da saputelli cinefili. Una struttura come quella del De Palma di Noah Baumbach e Jake Paltrow poteva forse essere adatta al ritratto di un cineasta della vecchia Hollywood o del cinema orientale ma non ad autori che hanno segnato il cinema statunitense a partire dalla New Hollywood.

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Pubblico e privato si mescolano. Si parte dal riferimento hitchcockiano obbligato di Vertigo, si passa per la collaborazione con il musicista Bernard Herrmann e si segue poi un preciso ordine cronologico che parte dai primi corti degli anni ’60 (Woton’s Wake del 1960), fino all’ultimo Passion, presentato proprio qui a Venezia nel 2012 anche se la didascalia indica erroneamente che è stato realizzato nel 2013. Mentre da un punto di vista più personale si fa riferimento al padre ortopedico, alla mancanza d’intesa nella sua famiglia. Tutti elementi presentati come nozioni, che però restano lì appiccicati sullo schermo. Senza mai trasformarsi in qualcos’altro.

brian de palma e al pacinoLa struttura, appunto. Brian De Palma che parla delle difficoltà e delle soddisfazioni, degli insuccessi (su tutti quello di Il falò delle vanità), racconta aneddoti (l’antagonismo tra Sean Penn e Michael J. Fox sul set di Vittime di guerra, con il primo che sussurra all’orecchio dell’altro “attore da tv”, che oggi potrebbe invece essere preso per un complimento; la polvere da sparo negli occhi di Sean Connery durante la lavorazione di The Untouchables che l’ha costretto al ricovero in ospedale…), sottolinea il controverso rapporto con la critica (anche se è stato sempre apprezzato dalla severissima Pauline Kael del New Yorker), svela retroscena (l’allontanamento di Oliver Stone dal set di Scarface perché parlava con gli attori), e parla di film che non ha mai realizzato; ci immaginiamo infatti come sarebbe stato Flashdance forse con il suo gioco di specchi, ma noi ci teniamo nel cuore la bellissima versione di Adrian Lyne.

Brian de Palma è lì seduto. Sempre nella stessa posizione. La sua immagine si alterna agli spezzoni di tutti i suoi film e a filmati e foto d’archivio, come quella di Steven Spielberg che è stato uno dei primi ad avere il telefono in macchina.

La cinefilia di Baumbach (e qui di Jake Paltrow) se non è controllata diventa un po’ presuntuosa e l’ultimo Giovani si diventa lo ha dimostrato.
Ma soprattutto manca un punto di vista. Forse da una parte hanno voluto soltanto far parlare De Palma e delegare a lui il racconto del proprio cinema (anche se tra i registi della New Hollywood gli preferiamo Demme, Coppola e Spielberg). Ma allora che senso ha il documentario su un altro cineasta se non c’è un’angolazione anche critica? Su cui si può non essere d’accordo ma che riesce comunque a dare una chiave interpretativa. Se si pensa, per esempio, ai lavori di Olivier Assayas su Hou Hsiao-hsien o di Martin Scorsese su Elia Kazan (A Letter to Elia) ci sono sempre due mondi che si incontrano. Qui invece anche le cose più interessanti non si amplificano, lo scontro tra la parola e l’archivio non provoca la minima scintilla. Anche per il suo andamento forsennato, che non dà respiro. Non perché abbia ritmo, ma solo perché è un film che va di corsa. Bisogna terminare il compitino. Con oltre 50 anni di carriera mostrati in 110 minuti, oltrepassando con gelida indifferenza anche il fatto che Passion potrebbe essere il suo ultimo film. Su consiglio della profezia di William Wyler, che gli disse che bisogna smettere quando non si riesce più a camminare con le proprie gambe.

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