#Venezia72 – La strada, la stanza: La calle dela Amargura, di Arturo Ripstein

Un Ripstein minore che mantiene ancora un sottile fascino e richiama anche tracce del suo cinema migliore. Tra Emilio Fernández, Roberto Gavaldón e Marco Ferreri. Fuori Concorso

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È una vecchia conoscenza di Alberto Barbera Arturo Ripstein, il regista messicano a cui quest’anno il Festival di Venezia consegna oggi una targa speciale in occasione del 50° anno di attività. Al Torino Film Festival del 1997, dove Barbera era direttore, era stata infatti dedicata una retrospettiva a uno dei nomi più importanti del cinema messicano che ha influenzato anche alcuni dei nomi delle generazioni successive, come per esempio Carlos Reygadas e Guillermo Del Toro.

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La calle de la amargura porta ancora sullo schermo personaggi sull’orlo dell’abisso, intrappolati in un universo claustrofobico, che mescola più umori che generi. Protagoniste sono due anziane prostitute che fanno fatica a tirare avanti. La prima vive un rapporto conflittuale con la figlia adolescente e il marito travestito. L’altra è in compagnia di una vecchia compagna ora immobilizzata. Una sera hanno un appuntamento con due lottatori di wrestling nani per festeggiare la loro vittoria che dopo poco, però, prende una piega sbagliata.

la calle de la amargura2Scritto dalle fedele sceneggiatrice Paz Alicia Garcíadiego e girato in bianco e nero, La calle de la amargura riporende quella commistione del tono da melodramma che sembra arrivare dal cinema di Emilio Fernández e Roberto Gavaldón (la citazione “somigli a Dolores del Rio“) e affonda nella tragedia popolare con delle tracce di grottesco memori del Marco Ferreri spagnolo come nella scena della carrozzina. Il suo cinema ritorna sulle tracce la sessualità malata, un conflitto destinato a non sanarsi mai. La vita del bordello era già stato al centro di El lugar sin límites mentre gli spazi chiusi, soffocanti richiamano tracce del suo straordinario El castillo de la pureza in cui un uomo teneva prigionieri in casa moglie e figli per proteggerli.

C’è la strada ma ci sono soprattutto stanze da letto. Gente che dorme o è distesa, svegliata. La simbologia stavolta però è anche troppo accentuata: l’uso delle maschera, il trucco del marito della prostituta e gli specchi che lo riflettono. Come se realismo e magia avessero bisogno di avere un’immagine doppia. Per lo spettatore, per gli stessi personaggi. Ed è la stessa ora del sonno che si approccia a una sorta di anticipazione di veglia funebre appare troppo insistita.

La calle de la amargura è un Ripstein che appare minore, pur mantenendo una coerenza nel suo percorso e anche un suo fascino. Il gesto diventa più sfocato, non immobilizzato come in uno dei suoi film migliori (e uno dei pochi ad essere usciti in sala in Italia), Profundo carmesí. I segni inevitabili del tempo. Che si porta dietro anche una sottile malinconia.

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