#Venezia 72 – Light Years, di Esther May Campbell

L’esordio nel lungometraggio della videomaker affronta una tematica difficile attraverso una sensibilità – tutta femminile – in grado di ammorbidire i toni. Alla settimana della Critica

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La piccola Rose vorrebbe andare a fare visita alla madre, ricoverata in una clinica per malati di Alzheimer, ma nessuno sembra intenzionato ad accompagnarla. Il padre cerca di aggirare il problema concentrandosi sul lavoro, mentre il fratello e la sorella sembrano troppo presi dai propri problemi fisici e sentimentali (reali o presunti) per accorgersi veramente di lei.

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L’esordio nel lungometraggio di Esther May Campbell (apprezzata videomaker con una lunga carriera alle spalle, tra televisione e videoclip) affronta una tematica difficile attraverso una sensibilità – tutta femminile – in grado di ammorbidire i toni, lasciando che il suo film goda di vita propria evitando i facili luoghi comuni sulla sofferenza e la malattia. E allora ecco che Light Years riesce in più momenti a fluttuare leggiadro, senza un baricentro preciso, seguendo le gesta dei tre ragazzi dinanzi a una tragedia troppo grande per essere compresa fino in fondo. Li vediamo camminare in mezzo alla natura, interrogandosi sul senso profondo delle cose, sul destino, sull’ineluttabilità della malattia che, forse, un giorno colpirà anche loro.

Ma non c’è mai patetismo, non c’è mai alcuna concessione alla commozione facile: a tratti la Campbell riesce davvero a filmare l’invisibile, gli anni luce del titolo che separano e allo stesso tempo uniscono i tre figli e quella madre che un giorno si dimenticherà di tutto. Le domande non troveranno risposta, ma il legame profondo tra i personaggi e i loro corpi riuscirà a dare un senso al mistero della malattia, lasciando che gli incontri e gli abbandoni si trasformino in momenti di verità e presa di coscienza in quel lungo percorso di formazione che sarà la loro vita.

Nonostante qualche estetismo forse troppo ricorrente, Light Years trasforma il paesaggio della periferia inglese e della campagna circostante in una sorta di viatico necessario per il raggiungimento dell’età adulta, percorso al ritmo lento di tre bambini che camminano in mezzo alla natura e osservano il mondo per cercare di capirlo.
Con consapevolezza, certo, ma anche con quella stessa leggerezza d’animo che Esther May Campbell infonde al suo film.

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