#Venezia 72 – Taj Mahal, di Nicolas Saada

I troppi finali contribuiscono ad appesantire la portata generale. Eppure, anche così, è un buon esempio di action consapevole dei limiti e della forza della messa in scena. In Orizzonti

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Il 26 novembre 2008 Mumbai è teatro di dieci attacchi terroristici avvenuti simultaneamente; tra gli obiettivi, anche il Taj Mahal Hotel, residence di lusso popolato da moltissimi turisti provenienti da tutto il mondo. Il film di Nicolas Saada ricostruisce gli eventi di quella tragica notte adottando il punto di vista di una famiglia francese, con i genitori bloccati per le strade governate dal caos e la figlia adolescente intrappolata nella stanza, in costante contatto telefonico con l’esterno. Una via diversa per l’action transalpino: la prima parte di Taj Mahal sembra presa di petto da un film anni Settanta (la lunga camminata muta per le strade della città, commentata solamente dalla colonna sonora), fino all’ingresso dei terroristi nell’albergo e l’inizio della carneficina. Da questo momento in poi il film di Saada si svincola da qualsiasi riferimento occidentale, quasi negando la propria natura di blockbuster d’azione, per lavorare alacremente sulla contrapposizione degli spazi: mentre fuori impazza il caos, la protagonista cerca disperatamente di sopravvivere nascondendosi all’interno.

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Un film nel quale non viene mostrata alcuna goccia di sangue, e dove i terroristi non hanno volto: la tragedia si compie in un fuori campo costante e assoluto, reso comprensibile solamente attraverso quello che si sente, e non quello che si vede. Sentiamo gli scoppi, le granate, le sparatorie, ma non vediamo (e quindi non capiamo) assolutamente nulla di quello che sta accadendo al di là delle pareti della stanza. Il corpo di Stacy Martin è il protagonista assoluto di questo survival movie, nel quale si trasforma in vero e proprio agente di resistenza, incarnando alla perfezione lo spaesamento di uno sguardo intrappolato all’interno di una realtà che non conosce, e che non riesce a vedere (è una fotografa, non a caso); solamente nel finale potrà conoscere i volti e i protagonisti dell’accaduto, grazie a un servizio in televisione, mentre Saada stringe esplicitamente sul suo viso. Come se l’unico modo per capire il mondo fosse quello di riuscire a rappresentarlo concretamente, attraverso le immagini, registrando il fallimento di tutti gli altri sensi.

Indubbiamente nulla di nuovo, e i troppi finali contribuiscono ad appesantire la portata generale del film, diluendolo attraverso una vena melodrammatica della quale si poteva fare benissimo a meno. Eppure, anche così, Taj Mahal è un buon esempio di action consapevole dei limiti e della forza della messa in scena, capace di riscrivere interamente un fatto di cronaca con la potenza dirompente di un fuori campo.

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