#Venezia72 – Free in Deed, di Jake Mahaffy

Quello che colpisce nel lavoro di Mahaffy è la sua estrema consapevolezza realizzativa che va dalla grande attenzione al suono al notevole gusto dell’inquadratura. In Orizzonti

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Melva è una ragazza madre costretta a barcamenarsi fra il lavoro e la cura dei suoi due figli, il più grande dei quali soffre di autismo con atteggiamenti autolesionisti. Sfinita fisicamente e demoralizzata dagli scarsi risultati delle cure adottate, la ragazza comincia a frequentare una chiesa pentecostale dove trova conforto ed aiuto e, soprattutto, comincia a sperare che il pastore Abe possa fare, per suo figlio, quello che la medicina non sembra in grado di fare.
Oltre ad essere tratto da una storia vera, il film è stato realmente girato in una delle comunità che gestisce una delle tante storefront churches (chiese ricavate da negozi dismessi) di Menphis, senza l’ausilio della quale, come riconosce lo stesso regista, non si sarebbe potuta ottenere la straordinaria intensità interpretativa che emerge nei momenti di preghiera comune in stile gospel.
Siamo di fronte ad un film che vive e cresce nell’attesa di un miracolo per alimentare il quale vediamo Abe consumarsi pian paino di fronte ai nostri occhi. Lo sforzo per sostenere questo dono, ma soprattutto l’enorme senso di responsabilità che esso genera in Abe, lo consuma: non tanto dal punto di vista fisico quanto, paradossalmente, proprio dal punto di vista umano rendendolo incapace di relazionarsi con i suoi simili, di dare, ad esempio, a Melva il calore e l’amore che entrambi cercano. Abe sembra convinto che il suo rapporto con gli altri non possa più realizzarsi se non mediato dal tocco divino.
Quello che colpisce, nel terzo lavoro di Jake Mahaffy (che ha esordito nel 2004 con War ed ha vinto il Grand Prize al South by Southwest nel 2008 con Wellness) è la sua estrema consapevolezza realizzativa che passa attraverso una grande attenzione al suono: creando un profilo sonoro per ciascuno dei personaggi principali e, soprattutto, si estrinseca nel notevole gusto dell’inquadratura utilizzata a fini diegetici. Mahaffy riesce a comunicare la tensione emotiva alternando, senza mai strafare, momenti nei quali rinchiude i personaggi in “gabbie” (riducendo lo schermo attraverso l’inserimento di continui ostacoli: muri, vetri, porte): quando si confrontano con la società, ad altri in cui li coglie in posizioni iconiche “trasfigurandoli” letteralmente quando sono al cospetto di Dio.

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