Much Loved, di Nabil Ayouch

Il film si mantiene su quel fragile equilibrio tra la puntualità dell’osservazione, la freschezza del linguaggio e l’amore per le storie che racconta. Forse l’equilibrio è fin troppo ricercato, ma…

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Vita e vicende di quattro prostitute di Marrakech. Noah è la più esperta del gruppo, forse la più bella. Sicuramente è la più “dedita” al lavoro, quella che va alla ricerca delle occasioni più redditizie. Il danaro è la sua ossessione, del resto ha una famiglia alle spalle che le succhia il sangue. E per il danaro è disposta a tutto. Anche a maltrattare ripetutamente le proprie compagne: Randa, la più irrequieta, forse perché incline ad altri orientamenti e altri sogni, Soukaina, la “romantica”. E infine Hlima, la contadina incinta, sbarcata nella grande città per sfuggire al rigido conservatorismo del villaggio natale. Ad accompagnarle, come un silenzioso angelo custode, l’autista Said, che col suo taxi attraversa la città da un capo all’altro.

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Presentato in anteprima all’ultima Quinzaine des réalisateurs e lanciato ormai un po’ ovunque come il film scandalo proibito dalle autorità marocchine, Much Loved è senza dubbio coraggioso e importante per la sua determinazione “politica” a fissare lo sguardo su una realtà “oscura” del paese. E Nabil Ayouch, sorretto dalle sue splendide attrici, non ha certo mezze misure nel dire da che parte sta, se da quella del moralismo conservatore o dalla parte dei suoi personaggi ai margini, apparentemente fuori dalla grazia del signore, sfruttati, umiliati, degradati, eppur dotati di un’umanità insopprimibile. L’adesione è totale ed è per questo che il film rifugge dalle tentazioni del voyeurismo, implicite in una materia del genere, ma anche dal facile pietismo, mantenendosi su quel fragile equilibrio tra la puntualità dell’osservazione, la freschezza del linguaggio e l’amore per le storie che racconta. Un equilibrio forse sin troppo ricercato, al punto che Much Loved non sembra mai lasciarsi andare a fondo, fino alla deriva, se non in alcuni attimi, specie nel finale.

Much-LovedIl fatto è che Ayouch, nato e formatosi in Francia, procede con un approccio duplice. Da un lato, c’è un vero e proprio intento cronachistico, quasi un reportage sul campo che non tralascia alcun aspetto del mondo raccontato, del milieu, anche il più turpe e sgradevole. Del resto il film nasce da un gran lavoro di ricerca, con oltre 200 prostitute intervistate prima di arrivare alla fase di scrittura e ripresa. E, in questo senso, Much Loved sembra quasi un catalogo, una raccolta di casi a cui nulla sfugge, dalla clientela più disparata (sauditi, europei, clienti occasionali) all’elenco delle situazioni tipo (il party esclusivo fatto di sesso e alcool, il cliente “innamorato” e romantico, il violento, l’impotente), fino al popolo variegato del mondo della notte, tra ubriachi, trans, lesbiche… D’altro canto questo catalogo è inserito in una vera e propria struttura narrativa forte, quasi fosse un rosario da sgranare tra le sbarre di una prigione, una gabbia ossessiva e cupa che sembra non lasciar scampo, delimitata dalle strade di una città in cui il caos e la regola sembrano essere la stessa cosa. Una città di cui si mostrano solo alcuni squarci, come filtrati dai finestrini del taxi di Said, luogo di confine. Eppure una città che fa sentire la sua presenza in ogni istante, anche nei suoi “vuoti”, nei suoi silenzi. Tra questi vuoti, la disperazione sembra non aver argini. E Ayouch è metodico, spietato nell’osservarla, con un’evidenza infinitamente più invasiva, “pornografica” che nelle scene di sesso, francamente “normalissime” per i nostri occhi (e qui andrebbe aperto un altro discorso sulla pulizia formale, sulla composta correttezza del linguaggio di Much Loved). Fino, però, a forzare le costrizioni in un finale che sembra andare alla deriva, immaginare un’altra ipotesi di libertà, di verità e vita. Una spiaggia e una famiglie utopiche. Probabilmente è solo un attimo. Ma è pur sempre un attimo.

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