Suburra, di Stefano Sollima

Sollima lavora sulla confezione. E per lui l’estetica è questione di forma scintillante, di mostrare il mostrabile, infischiandosene del fuoricampo. Tutto è in superficie, ma nulla è vertigine

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C’è una febbre che pare aver contagiato Roma, una specie di morbo apocalittico che è salito dalle viscere della città, come l’acqua che vien su dalle fogne e fa esplodere i tombini. È un’aria di disastro che, con i nostri sensi sempre pronti al peggio, cogliamo da tempo, forse romanzandoci su un bel po’. Del resto pensiamo sempre che abbia ragione il fantomatico profeta della Casilina quando scrive che “nun ce stanno più le bibbie de na volta” e annuncis la fine del mondo. Ma è un dato di fatto che la città è nervosa. Forse perché non sempre le capita di prestar attenzione all’inferno che cova sotto. Cosa che, invece, è sempre così visibile altrove, a Napoli e Palermo ad esempio, squarciate, aperte e nude per natura. E anche quando le capita, ha il cinismo sufficiente per fottersene. Ma questo nervosismo, a volte, è palpabile, almeno per uno come me, che ha la fortuna o la sciagura di avere un occhio esterno, strabico al limite. E proprio a questo nervosismo si aggrappa Stefano Sollima, che, come già in A.C.A.B., tenta di affondare le mani in quell’oscuro grumo di rabbia e sangue che lo genera.

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suburraSuburra è, però, un’operazione infinitamente più ambiziosa della precedente. Perché, sebbene A.C.A.B. attraversasse la città a velocità limite, rimaneva comunque circoscritto a un ambito, un ambiente e, in fondo, un argomento. Qui tutto è più complesso, c’è l’intreccio tra la storia e il romanzo, con le dimissioni del papa e la fine del governo Berlusconi che segnano i tempi dell’apocalisse del racconto. C’è l’inarrestabile corruzione politica che s’intreccia con il mondo degli affari e gli interessi della criminalità organizzata, c’è l’arrivismo della delinquenza di strada che sogna il grande salto e la redistribuzione della geografia e dell’economia dei poteri, c’è il lato oscuro della Chiesa e la miseria della bella vita, c’è il fascismo che risale a galla e si ramifica nei centri di comando (ma, forse, in una visione “ecumenica” poco importa il colore, tanto si può benissimo trovare un politico anche dall’altra parte: gruppo misto infinito). Un degrado umano e morale senza fondo, per cui alla fine i personaggi più puri si sono comunque prostituiti o intossicati. E c’è il peso plumbeo di una città che, indifferente, mangia e seppellisce i suoi cadaveri. I personaggi non si contano: il mediocre e orribile onorevole Malgradi, sepolto dal suo mascherone, il vigliacco Sebastiano, il vero uomo “sordiano” che ci meritiamo, il bestiale Manfredi Anacleti, lo zingaro strozzino (?), il Numero 8 di Ostia, spietato, eppur l’unico che sembra animato da una visione, le donne, Sabrina e Viola che cercano lo scampo o un’ipotesi di salvezza nel meccanismo. E, al centro di tutti, il Samurai, l’uomo che sembra incarnare il programma “divino”, l’autore di tutte le trame segrete.

Insomma c’è materia che basterebbe per molto altro (una serie TV ovviamente, per Netflix, annunciata per il 2017), già a partire dal romanzo omonimo di Carlo Bonini (che ormai sembra l’ideologo del cinema di Sollima) e Giancarlo De Cataldo, sfrondato e velocizzato dal “mestiere” di Rulli e Petraglia.

 

suburra2Ma la vera ambizione di Sollima è quella di penetrare sempre più il presente attraverso lo sguardo del genere. Da un lato la mitologia di un immaginario cinematografico che segna l’orizzonte del desiderio, dall’altro il peso “politico” di un discorso sul reale e le sue urgenze. Se le due cose son legate, lo sono da sempre, si sa. Ma è proprio su questo punto che, ancora una volta, c’è un profondo fraintendimento. Che si mostra sin da subito, sin da quella scena (sorrentiniana?) del papa che, assorto in preghiera, chiama a sé il giovane prete per comunicargli la sua intenzione. Ma ancor più in quella seduta parlamentare perfettamente ricostruita, “fedele”, eppur immancabilmente finta, tanto da sembrare figlia dell’ennesima corretta, didascalica, inutile fiction televisiva. È come se Sollima sentisse la nostalgia del reale ed avvertisse, nonostante tutto, l’incapacità di coglierlo appieno con il genere, con il “suo” genere. Si insinua una specie di paura sottile, nonostante gli intenti e le dichiarazioni di principio, il timore che i codici, i tipi, le situazioni, da soli non siano in grado di trovare le chiavi di volta per raccontare il mondo e toccare la vita. E per questo, d’un tratto, si eclissa l’immaginario “noir” e torna il realismo come stile, come il massimo dell’artificio possibile, come una specie di dichiarazione di fallimento. Sì, forse il punto è proprio in quest’oscillazione tra la tragedia e la cronaca. Ma se anche fosse, sarebbe comunque una cronaca da “teatro di posa”. Forse i problemi stanno nella scrittura di Rulli e Petraglia che, ancorati a un logica funzionale, alla meccanica, perdono di vista i motori delle emozioni, gran parte del fascino dei personaggi, potenzialmente altissimo. O magari tutto sta proprio nella regia di Sollima in cui ogni cosa è sottolineata, tirata per le lunghe fino alla ridondanza di significato o all’eccesso citazionista. Come quando Favino, dal balcone, tra la pioggia, piscia su Roma, in un gesto di retorica aperta. O come in quella sparatoria depalmiana tra le scale mobili, in cui la geografia si segmenta nel montaggio e si raffredda. Sollima lavora sulla confezione. E per lui l’estetica è questione di forma scintillante, nonostante (o forse anche grazie a…) la fotografia di Paolo Carnera. È questione di muscoli, di mostrare il mostrabile, infischiandosene del fuoricampo e dei suoi misteri. Tutto è in superficie, ma nulla è vertigine. Se non dei brevi istanti, quelli in cui Alessandro Borghi sogna e soffre ad occhi aperti, quelli in cui Viola disegna traiettorie bessoniane. Ma qui non c’è gioco e amore come in Besson, tutto è dannatamente serio. Troppo serio. E tutto ha sempre lo stesso ritmo, lo stesso tono. Come un ossessivo suono monocorde. Restano gli interpreti a dare le variazioni, per quel che possono. E sono tutti eccezionali, a cominciare da un Claudio Amendola triste e trattenuto, da un Borghi che sembra sempre più in orbita, da Greta Scarano e da un incontenibile e imprevisto Adamo Dionisi. Sono loro, forse, l’unica traccia vitale di un film che accelera ma non palpita.

 

Regia: Stefano Sollima

Interpreti: Pierfrancesco Favino, Claudio Amendola, Elio Germano, Alessandro Borghi, Greta Scarano, Giulia Elettra Gorietti, Adamo Dionisi, Giacomo Ferrara, Antonello Fassari

Distribuzione: 01 Distribution

Durata: 130′

Origine: Italia, 2015

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