Io sono Ingrid, di Stig Björkman

Non è affatto l’agiografia di una stella del cinema; è semmai un complesso, e a tratti controverso, ritratto di donna, che di fronte alle aspettative altrui ha sempre messo al primo posto se stessa

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Preceduto dall’omaggio alla Festa del Cinema di Roma, dove Isabella Rossellini ha introdotto con affetto la proiezione dell’episodio restaurato di Siamo donne, diretto dal padre Roberto, arriva nelle sale per due soli giorni – secondo la formula ormai fin troppo diffusa dell’evento – Io sono Ingrid, docu-biopic sulla Bergman donna, diva e soprattutto madre, passato allo scorso Festival di Cannes.

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Un lavoro nato dall’incontro fra Isabella e il regista Stig Björkman, allargato poi a tutti gli altri fratelli, Ingrid e Roberto, ma anche Pia Lindstrom, la figlia “americana” di prime nozze. Ognuno di loro ha contribuito col proprio personale archivio di ricordi a entrare nel privato di questa immensa protagonista del cinema del Novecento, dalle mille vite e carriere.

Un privato finora penetrato soltanto dal citato episodio di Siamo donne, dove la diva mondiale lasciava spazio alla buffa straniera immischiata in liti di vicinato in quel di Santa Marinella.

Proprio la villa sul mare dei Rossellini occupa un ruolo di primo piano all’interno di Io sono Ingrid. Eden lontano e immacolato, rifugio perfetto e sfondo di tantissimi filmini in Super8, girati spesso dalla stessa attrice, moglie-interprete e madre-regista, decisa a fissare le immagini di un’esistenza nomade e funambolica attraverso la cinepresa.

Emerge in queste immagini un feeling istintivo tra la Bergman e la macchina da presa, verso quell’obiettivo che sin dalla più tenera età il padre le puntava addosso e davanti al quale Ingrid posava con un’impensabile maturità e senso dell’immagine, del proprio corpo nello spazio. Quello stesso che manterrà per tutta la sua luminosa e lunga carriera, segnata da capolavori come Casablanca, Gaslight, Notorious, e da un’allure che affascinò registi del calibro di Alfred Hitchcock, Victor Fleming, Anatole Litvak.

ingrid2_jpgBjörkman organizza bene il ricco materiale a sua disposizione, raccontando il sogno hollywoodiano della giovane svedese in cerca di un Paese più grande, dall’ambizione quasi sfrenata ma contenuta sempre da un magnifico garbo. Che non fu comunque sufficiente a risparmiarle le critiche dei benpensanti americani quando mollò marito e figlia per inseguire le sue passioni e che di fatto la costrinse ad abbandonare Hollywood, divenuta con gli anni una gabbia dorata.

Di questo mitico periodo restano frammenti, e soprattutto persone: l’amicizia fedele di Cary Grant, che al suo trionfante ritorno, nel ’57, ritirò in sua vece l’Oscar per Anastasia, o quella delle grandi donne nell’ombra, che le insegnarono come sopravvivere nella Fabbrica dei sogni, come Irene Selznick, moglie del produttore che la volle a tutti i costi negli Usa.

Dopo la fuga, arriva per Ingrid il bagno di realtà con Rossellini, la scoperta di un modo di fare cinema completamente opposto alla rigidità degli Studios. Ci saranno ancora Parigi e il ritorno in patria, finalmente diretta – non senza profondi contrasti – dal suo omonimo Ingmar, che ne mostra i segni del tempo nei primi piani di Sinfonia d’autunno.

io_sono_ingrid3_jpgIn mezzo restano i ricordi dei “bambini italiani”, lasciati a giocare in una grande casa vuota, per inseguire sempre il sogno della recitazione. Gli stessi figli appaiono come i primi spettatori affascinati dalla Diva, colpevolmente assente ma capace di farsi perdonare con “quella presenza che riempiva una stanza”.

Così, quelle carenze che sarebbero bastate a riempire almeno dieci soggetti da woman’s picture anni Quaranta, diventano qui i segni inequivocabili di uno charme talmente prorompente da superare i normali ruoli imposti alla figura femminile.

Io sono Ingrid non è affatto l’agiografia di una stella del cinema; è semmai un complesso, e a tratti controverso, ritratto di donna, che di fronte alle aspettative altrui ha sempre messo al primo posto se stessa. Adempiendo fino alla fine soltanto a una richiesta: quella di Robert Capa, il fotografo ungherese che la fece innamorare durante la i tour per i soldati americani al fronte, durante la Seconda Guerra Mondiale: “Promettimi che sarai gentile e bella in modo straziante”.

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