#RomaFF10 – Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti

Mainetti è bravissimo a ibridare il suo racconto con il linguaggio delle banlieue romane come questa Tor Bella Monaca, in un mash up tra i Manetti Bros e le follie sregolate di un Takashi Miike

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Nella sovraffollata Suburra di Sollima fanno capolino solo nei dialoghi, le “famiglie della bassa Italia” che hanno messo “li mijoni” nell’affare Waterfront, forse per non incrociare troppo i flussi con l’altra creatura seriale dell’autore, Gomorra.
Ma Mainetti compie quantomeno il miracolo balistico di mettere finalmente in scena i camorristi (con tanto di “Genny bello”, Salvatore Esposito, a certificare) a Tor Bella Monaca, alle prese con il segno sempre più caratterizzato di Luca Marinelli, qui delinquentucolo con la passione per le interpreti della musica leggera italiana prevalentemente della seconda metà degli ’80, lanciato in orbita senza freno alcuno come un irresistibile trucido da poliziottesco in salsa queer (ad es. Tomas Milian che “canta” Rocky Roberts in Assassinio sul Tevere…). Il clash è interessante soprattutto come resa dei conti della lingua da parlare ufficialmente nel cinema di genere nostrano, se questo romanesco da Cinecittà o l’imprecisata parlata partenopea da hashtag (tengono tutto insieme le strepitose invenzioni linguistiche, le trivialità e gli sfottò dello Zingaro, per l’appunto il personaggio di Marinelli).

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Però il copione di Lo chiamavano Jeeg Robot risale a troppi anni fa (cinque) per farne un titolo cruciale della questione, anche perché l’esperimento sta tutto nel calare nelle periferie della Capitale una struttura da fumettone supereroistico, più vicino a Super di Gunn che al tentativo recente di Salvatores, per dire: Claudio Santamaria, furfantello dall’esistenza desolata, assume poteri speciali dopo essere finito incastrato in un bidone pieno di una sostanza imprecisata nascosto in fondo al Tevere. La sua forza sovraumana sarà messa all’inizio al servizio di azioni criminose e di un grottesco incrocio di traiettorie all’interno della malavita romana.
L’incontro con Alessia (Ilenia Pastorelli), che per sopravvivere agli abusi subiti per tutta una vita a casa e dalle istituzioni vive in una realtà mentale parallela dominata da riferimenti e figure provenienti dall’universo di Jeeg Robot, lo porterà a riflettere sulla responsabilità insita nel suo nuovo status virale (le sue gesta vengono subito massicciamente condivise su youtube e sui social) di eroe.

Portare i robottoni e i supercattivi a scontrarsi tra i grattacieli di Roma e allo stadio durante il derby è un’idea che sarebbe piaciuta a Marco Ferreri, è vero, ma il film fortunatamente non imbocca la via dell’ammiccamento nerd, tenendo in secondo piano i ganci con la galassia robonipponica per intraprendere un racconto delle origini di una nuova maschera che veglia sulla città secondo le stazioni canoniche di presa di coscienza.
Quando funziona, va alla grande, una sorta di mash up tra i Manetti Bros e le follie sregolate di Takashi Miike (Dead or Alive?): peccato per qualche sequenza di compiacimento pulp-tarantiniano di troppo, davvero fuori tempo massimo.

Soprattutto, Mainetti è bravissimo a ibridare il suo racconto con il linguaggio delle banlieue romane come questa Tor Bella che il suo sguardo coglie con precisione, e il “pezzo” di street art che ritrae il supercriminale incappucciato portarsi a casa l’intero sportello di un bancomat come un mito da immortalare sui muri è forse l’immagine più puntuale dell’intera operazione tentata dal film.

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