#RomaFF10 – Grandma, di Paul Weitz

In Alice nella città un film bellissimo e importante, fragilissimo e straziante, che dimostra la maturità di un autore cruciale per questa generazione di cineasti. Una definizione di indipendenza

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Grandma di Paul Weitz è una definizione di indipendenza. Basterebbe questo a certificarne l’importanza, ma tra le altre cose è anche un film bellissimo, fragilissimo e straziante, che dimostra la maturità di un autore cruciale per questa generazione di cineasti, qui capace di portare avanti uno script talmente gonfio di sentimenti e storie che non puoi non avere la pelle d’oca davanti al tocco miracoloso con cui il regista tiene tutto insieme, colpisce per poi accarezzare all’improvviso, come la sua protagonista Lily Tomlin.

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Ed è indipendente questa coriacea nonna femminista e perennemente incazzata, non lascia che sia nessun altro a scegliere per lei nella sua vita neanche ora che l’età le suggerirebbe qualche aiuto, e si aggrappa alla solitudine che ne consegue mostrando i denti e roteando i pugni: non si perde d’animo nemmeno per un attimo, prima di mettersi in viaggio con la sua Dodge scassata per racimolare tra amicizie e ex-fiamme i soldi che servono alla nipote adolescente per abortire.
Grande lezione sullo sforzo fondamentale verso una sospensione del giudizio, abolizione del concetto imposto di senso di colpa. Ed è vero, il rapporto intergenerazionale della protagonista con la piccola Sage (Julia Garner, luminosissima) e poi con la figlia tenuta a distanza da troppo tempo, Marcia Gay Harden, è un tema ritornante nella filmografia di Weitz ed è qui il fulcro che tiene insieme tutto il racconto.

Però in Grandma c’è dell’altro, nel ritratto di questa poetessa militante che non si arrende e non vuole scendere a compromessi, fa a pezzi le carte di credito per appenderle come decorazione sulla porta di casa, e non ci sta a farsi sopraffare da un pensiero moderato e razionale, “ragionevole”, una donna a cui Tomlin dona tutta se stessa, l’orgoglio della sua storia privata e sentimentale, e del suo sguardo di interprete.
Come in un altro incommensurabile capolavoro di economia espressiva di questa stagione, Dove eravamo rimasti di Jonathan Demme (si ripensi solo a come gli sguardi tra i musicisti sul palco bastino in quel caso a raccontare tutte le passioni messe in circolo dal film), l’equilibrio tra giovani e adulti è continuamente ribaltato e rovesciato: chi sta sostenendo davvero chi, ad esempio, nella struggente sezione a casa di Sam Elliott (quella mano che Sage mette dietro la schiena della nonna…)?

C’è insomma l’indicazione di un cinema in cui l’indipendenza non è soltanto un’etichetta da appiccicare ad un’estetica canonizzata, quanto la passione che innerva un viaggio personalissimo, scritto dal solo Weitz e girato in 19 giorni con un budget al di sotto dei 600000 dollari, che la forza del cinema se la porta addosso con fierezza in ogni raggio di luce che filtra dall’inquadratura, ogni respiro pazzesco dell’immagine (l’istante abissale, potentissimo in cui le due donne si stringono per un attimo la mano prima di dividersi nella sala d’attesa della clinica), ogni lacrima e ogni battuta pronunciata da quest’umanità dolente e insieme meravigliosa che la storia attraversa (strepitose tutte le figure di contorno, e soprattutto la sempre fenomenale Judy Greer nel ruolo di Olivia, la compagna con cui Elle rompe a inizio film): di ognuna di queste vite intuiamo nello spazio di un paio di sequenze tutto il passato, la gioia ed il dolore di una esistenza intera.

Grandma
è un regalo portentoso anche alla città di Los Angeles, mai così scalcinata e arrugginita, capace di un abbraccio sbilenco e sgraziato ma calorosissimo, come quello che il film riserva ai suoi personaggi, ed agli spettatori.

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