Abbas Kiarostami: la rieducazione dello sguardo

Il nostro profilo approfondito sul cineasta itaniano scomparso lunedì scorso. Un’originalità della visione, a partire dalle prime opere degli anni ’70/’80 fino ai grandi successi degli anni ’90

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Tu andrai in fondo a questo viale 
che emergerà oltre l’adolescenza, 
poi ti volterai verso il fiore della solitudine.
A due passi dal fiore, ti fermerai 
ai piedi della fontana da dove sgorgano i miti della terra… 
Tu vedrai un bambino arrampicato in cima a un pino sottile,
desideroso di rapire la covata del nido della luce
e gli domanderai: dov’è la dimora dell’Amico?

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Sohrab Sepehri (dal film Dov’è la casa del mio amico?, 1987)

 

Tutto il cinema di Abbas Kiarostami si dibatte tra il realismo dei fatti e il realismo dei sentimenti. Con il valore aggiunto della originalità della visione, a partire dalle prime opere degli anni ’70/’80 fino ai grandi successi degli anni ’90.

Autodidatta, grafico pubblicitario, pittore, fotografo, poeta, non propriamente un cinefilo (dichiarava di avere visto 50 film in tutto), Kiarostami ha sempre guardato al mezzo cinematografico come a una possibilità non solo riproduttiva della realtà ma soprattutto come strumento interpretativo ed educativo. Il suo modo di girare, spesso caratterizzato da lunghi piano sequenza, panoramiche fisse e pochi interventi al montaggio sottendeva questa baziniana fiducia nell’opera filmica nel catturare frammenti di reale, filtrati dalla immaginazione dello spettatore e arricchiti da una riflessione costante tra il visibile e l’invisibile. A chi gli parlava di De Sica, Rossellini e dei debiti del suo cinema con il Neorealismo, Kiarostami rispondeva serenamente che il suo Iran post Khomeyni era assimilabile all’Italia del dopoguerra: quindi era il contesto a determinare lo sguardo sul reale e a renderlo confrontabile. Anche i raffronti con Ozu e Bresson non erano del tutto pertinenti perché Kiarostami raccontava al di là di alienazione ed esistenzialismo, soprattutto storie di uomini, donne, bambini alle prese con la sopravvivenza, il mondo del lavoro, i traumi della crescita, la perdita dell’innocenza. Il tutto avvolto con cura, in una particolare nota poetica che trasudava dal primo piano come da un campo lungo. Il trascendente, lo spirituale, faceva posto all’umano, alle sue possibilità di riscatto, di libertà all’interno di schemi di potere opprimenti, oltrepassando i limiti imposti dalle regole vigenti.

dov'è la casa del mio amicoSin dal primo successo che lo farà conoscere in Europa (Dov’è la casa del mio amico?, 1987) Kiarostami mette in moto una rieducazione dello sguardo che parte dal basso: in questo caso è un bambino che cerca di porre rimedio alle ingiustizie del mondo e tenta di riconsegnare un quaderno ad un suo compagno di scuola per evitargli una punizione. Proprio attraverso di lui lo spettatore riesce a mediare l’oggetto della rappresentazione da una posizione neutrale senza le barriere/convenzioni della macchina cinematografica. Ma è con Close Up (1990) che il regista iraniano raggiunge un perfetto equilibrio tra realtà e rappresentazione narrando la storia di un truffatore che si finge il regista Moshen Makhmalbaf per estorcere soldi a una famiglia benestante: l’idea geniale è quella di fare coincidere attori con i protagonisti dell’evento e ricreare il dibattimento processuale. Il gioco del fingersi un’altra persona per poi ritornare a indossare le proprie vesti permette a Kiarostami di dialogare con lo spettatore in termini di identificazione e rielaborazione.

il sapore della ciliegiaI suoi due allievi più famosi Jafar Panahi (Lo specchio, Oro rosso, Taxi Teheran) e Asghar Farhadi (About Elly, Una separazione, Il passato) porteranno all’estremo questa dialettica tra finzione e realtà con esiti sorprendenti e hanno con il maestro più di un debito di riconoscenza. Il cinema di Kiarostami è anche fatto di rumori, voci, suoni in presa diretta che hanno la capacità di dare profondità alle immagini, regalando una terza dimensione: è quello che succede con i tre film successivi E la vita continua (1992), Sotto gli ulivi (1994) e Il sapore della ciliegia (1997). Quest’ultima opera, premiata con la Palma d’oro al Festival di Cannes, contiene uno dei più bei dialoghi/monologhi della storia del cinema: un anziano contadino cerca di dissuadere il protagonista dal suicidio e lo fa evocando suoni, sensazioni e infine sapori. La macchina da presa rimane sull’anziano e lascia il controcampo alla immaginazione dello spettatore, che introietta il messaggio e scavalca la barriera dello schermo cinematografico. Pochissimi sono i cineasti in grado con una singola inquadratura di rendere attiva e partecipe l’esperienza della fruizione di una opera d’arte, la distanza si accorcia e il significato della sequenza è lì a portata di sguardo; mai in alto verso il cielo, quasi sempre in basso, nella terra, sulla strada, tra gli ulivi. Nonostante l’alto livello della produzione successiva, Kiarostami non raggiungerà più le vette di questo periodo di grazia, di grande ispirazione. Il vento ci porterà via (1999) è una elegia della vita vissuta in sintonia con la natura: una mela verde rotola fino ad una scanalatura e poi cade al piano di sotto, uno sguardo negato regala tutta la vergona di un sentimento nascente in una grotta colpita da un fascio di luce che illumina il vestito giallo oro della ragazza. Le liriche citate nel film sono quelle della poetessa persiana Forough Farrokhzad,

Oh! Corpo rigoglioso

Le tue mani, come doloroso ricordo,
poggiale tra le mie mani innamorate.
E le tue labbra, come una sensazione calda di vita,
lasciale carezzare le mie labbra innamorate.
Il vento ci porterà via.

juliette binoche william shimmel copia conformeUn’altra caratteristica del cinema di Kiarostami è il suo grande rispetto per la figura femminile che da oggetto del desiderio si trasforma in icona quasi sacra, a partire dal film Ten (2002) fino ad arrivare alle ultime prove di Shirin (2008) Copia conforme (2010) e Qualcuno da amare (2012). I vari personaggi femminili spesso sono inquadrati in primo piano e riflettono pienamente lo sguardo ormai maturo di Kiarostami, sia che si tratti di conversazioni in taxi, sia che si riproduca una copia conforme di vita familiare (con una splendida interpretazione di Juliette Binoche) o si parli di una cultura diversa come quella giapponese. In Shirin (2008) in particolare Kiarostami ribadisce l’importanza del fuoricampo registrando le reazioni delle sue attrici-spettatrici e facendo emergere dal buio della caverna platonica, proprio la materia di cui sono fatti i sogni. E non è questa la vera Arte, quella che non riproduce semplicemente ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è? Se volessimo ricordare una immagine che riassume tutto il cinema di Kiarostami, la parte finale di Sotto gli ulivi rimane impressa a futura memoria: un ragazzo insegue una ragazza di cui è invaghito e zigzaga per le colline alla ricerca di una parola di assenso o un segno di complicità. Il mutismo della ragazza si contrappone alle continue domande retoriche del ragazzo, che rimangono senza risposta. Kiarostami a un certo punto ferma la macchina da presa e lascia allo spettatore il percorso tortuoso dello sguardo, uno sguardo lasciato all’immaginazione per un finale aperto, uno sguardo rieducato. Ecco perché la perdita di Kiarostami diventa vuoto incolmabile: sarà difficile replicare o avvicinarsi al suo puro cinema di poesia.

Cara, io ho volato vieni

sono caduto nel giardino dell’amico, vieni.

Fratello dei giorni felici, sono in una giornata nera, vieni.

Ora, io sono un estraneo e tu pure un estraneo.

Se vai, ti sarò amico

e se resti ti sarò amico lo stesso…”

Poesia turca (dal film Il sapore della ciliegia, 1997)

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