All these sleepless nights, di Michal Marczak

Proiettato ieri al Kinodromo di Bologna, il film del cineasta polacco incarna la tradizionale, santa triade: amore, dolore, vita spiando, con occhio curioso, le notti e la albe di Varsavia

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Si è come in viaggio, in queste notti insonni, danzando – letteralmente, perché danza anche la camera – nei budelli di Varsavia: i suoi eccessi, la sua pelle grigio-verde, il suo respiro, il giovanile tormento. Un viaggio di cento minuti tra feste, alcol, tabacco, droghe, lingue, gelosie e scarse intenzioni. Nonostante la pellicola incominci con un bilancio del tempo mediamente impiegato da una persona in una vita (e il protagonista resti smarrito prendendo coscienza che le separazioni, in tutto, statisticamente impegnino appena ventisette ore dell’intera esistenza di un individuo), l’idea precipua è che il presente sia l’unico piatto da leccare fino all’ultimo sorso e che il futuro è volgare, o è una menzogna.

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Per questi lineamenti, All these sleepless nights rimanda alla medesima narcosi sonora e tematica di Eden (di Mia Hansen-Løve, 2014) o di Love (di Gaspar Noé, 2015).
A differenza di questi due lavori, tuttavia, l’opera polacca è, in quasi tutto il suo corso, documentario: Michal Marczak, cioè, in due anni accende la camera e spia, con occhio curioso, le notti e la albe di Varsavia; pedina i due principali interpreti, ne intuisce slanci e discordie, ne indaga le relazioni, ne sviscera i desideri, si inoltra nel delirio di queste adunate esterne o casalinghe, spesso segnate da vortici di musica elettronica (Can’t do without you di Caribou, scagliata in spiaggia, riempie una delle sequenze migliori).

All these sleepless nights non pone domande e non cerca risposte.
Semplicemente mostra: come si è giovani, com’è difficile, e come si può esserlo oggi, in una capitale europea. Per questo, Marczak evita la fiction ed evita del tutto che il suo sguardo indugi sulla vita più “concreta” di queste persone: cosa studiano (se studiano), cosa fanno, come e quanto guadagnano prima di addentrarsi nell’Ade varsaviano.
Nella consapevolezza che il film è, pertanto, documentario, la pochezza contenutistica e l’(in)esistenza della trama passano in secondo piano. Anzi, iniettano più prestigio e più intimità a questi folli cento minuti, che ineluttabilmente incarnano la tradizionale, santa triade: amore, dolore, vita.

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