Allied – Un’ombra nascosta, di Robert Zemeckis

Ciò che resta dopo il salto nel vuoto di The Walk. Un film che rinuncia all’illusione prospettica, ma che mostra ancora il gesto caldo, pittorico, del racconto. Transavanguardia

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E se quella di Zemeckis fosse un’operazione di transavanguardia? Non parlo solo di Allied, ma, in qualche modo, dell’intera sua filmografia, che pare continuamente attraversare tutte le soglie e i confini “istituzionali” e codificati del linguaggio, in ragione delle incessanti trasformazioni del mezzo tecnologico. Digitale, computer graphic, 3D, motion capture, innesto dell’animazione nel live action e della ricostruzione finzionale nell’immagine d’archivio. Ogni possibile pratica di ricerca e sperimentazione è stata passata al vaglio dello sguardo critico di Zemeckis, con un’apertura e una disponibilità che non hanno praticamente eguali nel cinema americano “mainstream”. A parte Spielberg forse, ma sempre un attimo dopo e con più vistosi, vischiosi residui di una resistenza interiore, di un umanesimo non patteggiabile (anche quando si parla di protagonisti “non umani”), di una ferma fiducia nelle capacità dell’immagine e della parola di stabilire ancora un dialogo attivo, fondante, tra gli uomini e il mondo. In Zemeckis questa fiducia, se pur c’è, è zoppicante, sopravvive più per un atto di volontà, che per una ferma convinzione. Perché è minata dalla consapevolezza dell’opacità dell’immagine, di un invincibile margine di finzione e, dunque, di ambiguità che congiura da principio contro la riproduzione del reale e che si moltiplica a dismisura a ogni svolta tecnica, a ogni nuova invenzione. Il progresso è uno slittamento che, nell’attimo stesso in cui complica l’approccio all’inquadratura, la resa dei rapporti spaziali e temporali, allontana dal vero, dalla sua utopica ripresa e proiezione. E lungo questra progressione, stazione dopo stazione, film dopo film, il contatto, quell’ansia tutta zemeckisiana di stabilire una trama di connessioni tra le maglie delle immagini, appare sempre più impossibile. Il filo lanciato sul vuoto di The Walk è già un punto di non ritorno… una corda tesa che unisce le distanze più improponibili, un funambolo che sogna di conquistare nuova terra calpestabile: è tutto un percorso di solitudine, un’ossessione individuale che non ammette compagnie e non consente emulazioni, è un gesto che non apre nuovi spazi percorribili dagli altri, nuove piste, traccia solo traiettorie singolari, personalissime, quindi effimere, per quanto magnifiche. Ma non si tratta semplicemente di un discorso intorno a un personaggio, una storia. Perché nel raccontare la performance di Petit, The Walk ne ricalca in qualche modo il cammino, provando a guadagnare definitivamente l’unico spazio non ancora percorribile dal cinema, quella terza dimensione che Zemeckis si affanna a catturare nella misura delle profondità, delle fughe prospettiche a perdita d’occhio. Con la consapevolezza di fallire, ovviamente (e perciò a un certo punto, le dimensioni sparivano e con esse il mondo attorno, come a raggiungere un grado zero dell’immagine vuota, tutta mentale… immagine “concettuale”?)…

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nullAllied è ciò che resta dopo questo tentativo estremo, l’unica ipotesi plausibile e possibile di un discorso conseguente. E lo dimostra già la prima scena, ormai già famosa e stracitata dai recensori implacabili, quel filo a piombo di una caduta, di un improbabile Brad Pitt che col paracadute torna a terra, alle sabbie incandescenti del reale desertificato dell’immagine. Il punto di quella scena non è tanto che il contatto (guarda caso) non avviene mai, per davvero, come è stato giustamente sottolineato. Il punto è che, per come compone quell’inquadratura, per come direziona il suo sguardo, Zemeckis schiaccia la figura verso l’ambiente, rinunciando completamente a un’ipotesi plausibile di profondità, di una terza dimensione. Un’illusione ottica, forse, ma che adbica in un istante a tutte le illusioni ben più ingannevoli di un figurativismo di maniera. Perché, nella superficie del quadro, non c’è mai reale distanza tra l’uomo in volo e le dune di sabbia sotto di lui, se non quella tutta mentale che noi riusciamo a disegnare con i nostri ragionamenti, le nostre marion cotillard in alliedabitudini, le nostre esperienze. Quell’immagine è ormai un à plat, un quadro bidimensionale che sembra resuscitare in un attimo tutte le espressioni più consapevoli dell’arte novecentesca. Toccato questo punto, ogni altro discorso che tiri in ballo questioni di plausibilità, di verosimiglianza, di tenuta emotiva, di pretestuosità del recupero del classico e quant’altro, è fuori luogo. La struttura meccanica, in due parti del plot di Steven Knight, la moglie spia, la menzogna e il germe del dubbio, le soluzioni visive, le scene assurde, il sesso in auto durante il delirio circolare, vitalisticamente spiraliforme di una tempesta di sabbia, il parto sotto la pioggia dei bombardamenti, persino il volto di Pitt che sembra ringiovanire a ogni primo piano, come se la sindrome di Benjamin Button si fosse in definitiva impossessata dell’attore. Va tutto bene. Perché è come se Zemeckis avesse detto sin dall’inizio: ok, ogni cosa è finta, per questo anche fingere è fingere, quindi non è più fingere… ricominciamo da capo. E tutto il resto del film, con coraggiosa semplicità e coerenza, ritorna su questo concetto, per sviscerarlo nelle sue varie implicazioni, morali, emotive, sentimentali, storiche addirittura. Il ritorno al cinema classico di Zemeckis, con le suggestioni di Casablanca e le incandescenze del mélo, non può non tener conto di quanto tempo sia passato da allora a oggi. Di quanto il velo delle illusioni sia stato stracciato via dalle esperienze filmiche più rigorose, dai concettualismi più vertiginosi, dagli snodi teorici più implacabili. Per questo tutte le impalcature artificiali restano ben in vista, quasi fossero un’ostruzione volontaria, un filtro tra lo spettacolo e il pubblico, che mormora e s’incazza. Ma Zemeckis, che ha attraversato con fluida libertà le pratiche, i linguaggi, le mode, non ha mai potuto rinunciare alla concretezza e alla gioia dell’attività creativa, quel “gesto pittorico” che per lui sta nel racconto delle storie, delle emozioni, di tutto l’umano che avanza oltre gli sterili dispositivi e saperi della tecnica. Ecco la transavanguardia, magari. “Io non mento mai sulle emozioni, è per questo che funziona”, dice Marion Cotillard nella battuta più bella e decisiva del film. Il patto con i nostri occhi non c’è, la nostra fede non è più scontata. Anzi, viene messa in crisi, ogni minuto, ogni giorno. Ma se le emozioni restano salde, oltre la menzogna, il dubbio, la morte, cos’è allora, di che parliamo? L’amore? È  questo che ci chiede Zemeckis, alla fine? Un contatto d’amore tra noi e lui, nonostante tutto. L’unico possibile.

 

Titolo originale: Allied

Regia: Robert Zemeckis

Interpreti: Brad Pitt, Marion Cotillard, Lizzy Caplan, Matthew Goode, Raffey Cassidy, Charlotte Hope

Distribuzione: Universal Pictures Italy

Durata: 124′

Origine: USA, 2016

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