Amarcord Federico Fellini

Il cinema di Fellini (di cui ricorre il decimo anniversario della morte)è fermo, immacolato da decenni, ridotto a simulacro di se stesso, buono per le tante autopsie che si sono accavallate negli anni, ma si tratta anche di un cinema percorribile ormai come un vieto villaggio turistico, con le sue attrazioni, i suoi luoghi deputati

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L'Italia ricorda Federico Fellini, con tanto di congressi, celebrazioni, ricorrenze, il tutto culminante nell'anniversario della morte, avvenuta dieci anni fa. Lo abbiamo già scritto lo scorso anno in occasione dei festeggiamenti riservati ai novant'anni di Michelangelo Antonioni, ma lo ripetiamo senza problemi anche stavolta. La celebrazione mummifica, procedendo senza ripensamenti all'imbalsamazione di un corpo buono per musei allestiti in fretta e in furia, venuti su come negazione di ogni dialettica, all'insegna del monumento intoccabile/venerabile. Se un corpo c'è (nel caso di gran parte del cinema di Fellini abbiamo più di un dubbio), deve esserci contatto, percezione, gioco, nonchè manipolazione. Ora, manipolazione in questo caso c'è stata, ma nulla che riguardi o tocchi sia pur minimamente il cinema. Che resta lì, inerte, statico, un corpo appunto morto, caduto in un oblio percettico che emana soltanto folate di naftalina, perché continui a conservarsi indenne chissà ancora per quanti anni. Accanto ad un regista oltremodo istituzionalizzato, la presenza di un cinema percorribile ormai come un vieto villaggio turistico, con le sue attrazioni, i suoi luoghi deputati, le sue stazioni abitudinarie. Il circo, la marcetta di Nino Rota, le gigantesse pronte ad abbracciare l'uomo soffocandolo, e così via, sono luoghi eponimi in cui il cinema incontra il mercato e gli si subordina trasformando l'indicibile e l'inclassificabile in prodotto buono per l'esportazione, e nondimeno in segno costruito del riconoscimento di una certa italianità all'estero (la fantasia, l'originalità, l'invenzione). Il cinema di Fellini intanto è fermo, immacolato da decenni, ridotto a simulacro di se stesso, buono per le tante autopsie che si sono accavallate negli anni. Proviamo a svegliarlo e vediamo che succede. Una piccola premessa però. Per quanto ci riguarda, il cinema del regista riminese si divide in due grosse sezioni, diciamo pure in due momenti divisi da una sublime Giulietta Masina che si incammina di notte lungo una strada e il cui pianto viene come smorzato dall'allegria di alcuni ragazzi che le restituiscono il sorriso. Il finale dell'opera, Le notti di Cabiria, non segna soltanto un'ipotetica fine, ma anche l'irruzione nel cinema di Fellini di un elemento nuovo, di un apripista che lo porterà dopo la pausa di Decameron '70 agli incroci notturni de La dolce vita. Parliamo dell'oltrepassamento del neorealismo e dell'affrancarsi dell'immagine dal parametro di riconoscimento indotto dal realismo della cornice. Non c'è cornice ne Le notti di Cabiria, non c'è più pretesto narrativo, né evocazione, ma un semplice cambio di marcia che già prelude ad una sorta di ipotetico cul de sac, imboccato non a caso da Fellini appena qualche anno dopo. Come si articola lo spazio percorso da Cabiria, deliziosa creatura in bilico tra salvezza e dannazione, inferno e paradiso? Semplice da dirsi, in una sorta di rettilineo che conduce direttamente ad una meta finale in cui il percorso perde linearità e inizia a inerpicarsi in giravolte sempre più arzigogolate e fantasiose. Cabiria segna allora una mutazione in progress, ma forse una mutazione già avvenuta, fatto sta che si tratta dell'unico personaggio felliniano degli anni Cinquanta in grado di muovere veramente il set e di provocare un reale stravolgimento di percorso.

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Prima di avventurarci su questa strada, illuminata dal suono di voci festanti, riavvolgiamo però il nastro e cerchiamo di vedere in che modo siamo giunti su questo sentiero. In Luci del varietà Fellini, qui alla sua prima opera come regista, sembra già in grado di muoversi all'interno di un universo come già fissato, alimentato da spinte deflagranti che ri/fanno il mondo dello spettacolo (anzi, dell'avanspettacolo) in un mosaico scoperto di accensioni sentimentali, quasi sempre destinate all'implosione. Non è un caso che Federico accenda le luci della ribalta sul corpo precario e instabile di un grandissimo Peppino De Filippo che calamita la fisicità di un melò come singhiozzante su coordinate che si fanno spettacolo, traiettorie come asciugate da ogni tipo di enfasi effettistica. E' già il segno di un autore che, coadiuvato dalla scrittura in questo caso mai oppressiva di Pinelli e Flaiano, conduce personaggi tipo di un certo cinema (se vogliamo quello già quasi scaduto del neorealismo) all'interno di situazioni in cui la realtà è come sublimata in spettacolo, e in cui la strada è quella di un lungo palcoscenico in cui ci si traveste, camuffando realtà e finzione, e trascinando entrambe in vortici di totale indistinzione. Lo stesso segno filmico questo che poi torna ne Lo sceicco bianco, forse l'opera più aperta e libera di Fellini, in cui si assiste appunto al continuo trapasso dalla serialità di un realismo quasi assente, alla proiezione fantasmatica di un desiderio d'andare oltre il corpo, di inventarsi altri tipi di fisicità, in un volo incontrollato di fantasia (tutte le sequenze con uno strepitoso Alberto Sordi, compresa quella giustamente famosa del suo corpo che ondeggia su di un'altalena sospesa tra cielo e terra). Non è un caso allora che tutti i personaggi de I Vitelloni mimino continuamente entrate ed uscite dai binari delle loro esistenze (Sordi che vaga all'alba a Viareggio, col trucco che gli cola dal viso), fino a giungere allo spostamento vero e proprio su di un set continuamente vagheggiato (quello della città) che si imprime nel fuoricampo finale, con Moraldo (il vero alter ego del regista) che si allontana con il treno in un altrove destinato a rimanere tale. Il cinema allora come beffa, gioco del destino che intrappola le sue creature su set come sigillati, per poi spalancare improvvisamente le porte e inventarsi aperture assolutamente inaspettate. Il quesito posto da Fellini è molto semplice: è possibile dare ancora realismo quando sulla scena iniziano a comparire segni non più riconducibili ad una stessa matrice visiva? Il suo cinema degli anni Cinquanta si impegna a vivere fino in fondo la domanda, senza la pretesa di produrre parallelamente una risposta. Anche perché opere come La strada e Il bidone rappresentano degli ibridi che, come poi accade per il miglior cinema, sfuggono ad ogni definizione, e in cui si sente il respiro passionale di una macchina da presa che sta davvero addosso ai personaggi (ne La strada scolpisce i volti di Queen e de la Masina con una forza espressiva eccezionale, all'insegna di un enunciato visivo in cui nasce un melò itinerante che scardina il set con momenti lancinanti), liberandosi anche presto dalle pastoie di un cinema di scrittura. Tutto ciò fino alla fine degli anni Cinquanta, fino all'andamento caracollante di Cabiria che rivive i sogni centrifughi di Moraldo, per concluderli in un punto di non ritorno non a caso rappresentato dall'ingresso in città. Eccoci allora giunti allo spartiacque di questo cinema, al profondo cambiamento di uno sguardo. Guardando all'opera omnia dell'autore infatti, è come se in quest'ultima sequenza Fellini sia giunto ad una sorta di massima depurazione espressiva, e al contempo ad una eccezionale semplicità sintattica, riassunta proprio dall'incedere lento di un corpo che prova sulla pelle gli stadi di una trasformazione graduale in cui cambia il set, la parvenza fisica, la luce stessa. E' la dispersione allora, centrata su un movimento in cui si fa palese l'abbandono dell'universo evocato precedentemente.

Ci troviamo allora all'interno della seconda fase/sezione dell'universo felliniano, quella in cui il pudore e il trattenimento della prima cambiano improvvisamente valenza, per avventurarsi lungo una galleria di corpi in demolizione, di forme che si riavvolgono su se stesse all'insegna di una circolarità in grado di rappresentare/esprimere soltanto se stessa, un vicolo cieco insomma, scambiato dai più per una delle vette della cinematografia italiana e non dal dopoguerra in poi. I corpi felliniani, trapiantati improvvisamente all'interno della città (La dolce vita), perdono se stessi, non conoscono intensità che tenga, sono in un certo senso tramortiti da una volontà autoriale che li possiede distrattamente (Otto e mezzo, e qui il discorso si sposta direttamente sullo sfondo di una memoria ossessiva ed estenuante), in preda ad una totale stanchezza ispirativa. L'andamento antinarrativo de La dolce vita allora, con i suoi blocchi narrativi isolati che decontestualizzano il soggetto trasportandolo da una parte all'altra di Roma, sono ciò che di più datato si possa immaginare oggi, un procedimento assolutamente cerebrale in cui il cinema sembra ridursi ad una sorta di macchina impietosa che non mostra il minimo di tenerezza nei confronti di ciò che mostra/racconta. E' come se Fellini avesse racchiuso all'interno di una sola opera (furbissima e calcolata al millesimo) l'insieme dei motivi culturali di un'intera società, frullandoli in un impasto assolutamente artefatto dove ogni elemento viene come privato della sua autenticità e ridotto a oggetto costruito, o meglio ricostruito, e dato in pasto alle esigenze snobistiche del cosiddetto pubblico specializzato. Si è tanto parlato di rivoluzione espressiva, di film fondamentali per la storia del cinema, ma si tratta dei soliti farfugliamenti accademici di persone che si sono sempre trincerate dietro i più vieti ipse dixit. In realtà le cose stanno in modo diverso e rivedendo oggi il film, ci accorgiamo che si tratta anche di un'opera assolutamente arretrata sul profilo formale. Fellini non fa altro che rifugiarsi continuamente nelle strettoie di un cinema articolato come successione di momenti scritti che risalgono direttamente dalla rielaborazione tipica della commedia all'italiana, con la differenza che si tratta di tipi sociali apparentemente nuovi (il paparazzo, la sua corte e così via). In Otto e mezzo il discorso verte, come già precisato, sulla memoria, l'infanzia, il ricordo, ma anche qui Fellini si nasconde subito dietro l'ombra di un cinema asfittico, chiuso a riccio su se stesso, frutto di ossessioni personali che restano come trattenute sul filo di un'ambiguità che infatti nel corso degli anni ha prodotto le letture più svariate (psicoanalitiche, sociologiche, politiche e così via). Non c'è mai una vera adesione emozionale nel regista che produce uno spettacolo che si mangia la coda, criptico, fumoso, volutamente distaccato, una sorta di morte al lavoro in cui non c'è vita, ma la perpetuazione di un movimento svuotato (quello del protagonista che vaga tra le incertezze del presente e i camuffamenti vari del passato) che non mostra alcuna vera necessità, ma soltanto l'intenzione di mostrare il più possibile, accostando corpi, smontando sensi, e producendo uno sguardo che non libera mai i corpi, cortocircuitandoli in un delirio artificiale senza uscita. Fellini, lo ripetiamo senza problemi, sul piano formale non inventa nulla e non stravolge nessun ordine delle cose. Si limita a comporre delle visioni (nel senso più meccanico e automatico del termine) che si palesano quasi subito come frutto di elucubrazioni mentali inscenate col cesello, e perfettamente inserite in un campionario cinico di distorsioni effettistiche. In questo senso il suo cinema degli anni Sessanta e Settanta segue perfettamente il filo delle due opere di punta appena citate, con rimaneggiamenti e variazioni minime che non hanno quasi mai apportato alcuna novità.

Stiamo parlando dei rimasticamenti onirici di Giulietta degli spiriti, dell'imbarazzante tono concettuale di Prova d'orchestra, delle camere mortuarie di Casanova, con una tendenza sempre più persistente a ricreare l'impressione di irrealtà all'interno dello studio, nel trionfo di una maniera che tocca una delle sue vette di cattivo gusto ne La città delle donne e il suo vertice di esasperazione formale ne E la nave va. Saltando da un'opera all'altra (e passando obbligatoriamente per una delle avventure chiave del percorso felliniano che è il suo Satyricon), abbiamo come l'impressione che la riflessione avviata da Fellini sul cinema dello spettacolo e sulla svestizione del passato quale ricettacolo di ossessioni travestite da ricordi abbia assunto la forma di una ripetizione allucinata di gesti, traiettorie, colori, in un tripudio grottesco in cui il cinema non fa altro che mostrare se stesso (la fine de L'intervista, ma anche l'esibizione nostalgica di Ginger e Fred), in una sorta di innamoramento continuo narcisistico ed estetizzante, senza che venga mai dato un reale respiro alle situazioni messe in gioco. Il cinema ha il dovere (nel migliore dei casi, si intende) di ri/mettere in circolo un'idea di sguardo, di inventare altri modi di leggere il mondo, e di reinventarlo, esponendosi anche al fuoco incrociato di letture diverse. Ecco, il Fellini più celebrato ci si presenta come un autore ritirato in se stesso, un mancato inventore di forme (se la mettiamo su questo piano, il cinema più rivoluzionario mai fatto in Italia è stato quello di Rossellini e di Leone), e al tempo stesso un regista che ha saputo imporre uno sguardo smaliziato, mai del tutto sincero, sempre come arroccato su una guglia da cui sarebbe disceso di volta in volta il capolavoro annunciato. Celebriamo allora Fellini, ma a modo nostro. Il chè significa riprenderlo in mano e magari commuoverci di fronte a certi momenti de I Clown (il finale soprattutto con lo spazio improvvisamente vuoto del circo), al Benigni de La voce della luna, e a tutti quei momenti in cui il suo cinema sembrava finalmente togliersi lo specchio davanti, per mostrare qualcosa che andasse al di là della pura esibizione di stile. L'immagine commemorata non varrà mai quella discussa.

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