Il favoloso mondo di Amélie, di Jean-Pierre Jeunet

Portatore sano di una dirompente fantasia, sempre a patto che si abbia voglia di togliere il freno a mano e lasciarsi andare, leggeri, all’ebbrezza. Strepitoso successo in Francia

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Un’aliena a Montmartre. Portatrice sana di una dirompente fantasia, Amélie nasce come una “mitica Matilda” in una famiglia affetta da cronico e pragmaticissimo grigiore, uno di quei nuclei familiari “monovano” che di fantasia proprio non ne vogliono sapere. E cresce, la nostra Amélie, come una libellula nel colorato mondo di Parigi, zona Montmartre appunto, immersa in un clima da perenne “giorno di festa” (vecchio, caro Monsieur Tati…), stravagante quartiere che la giovinetta, inserviente in una buvette che più parisienne non si potrebbe, attraversa ogni giorno come fosse il bosco delle fiabe: pronta a sorprendersi d’ogni fremito di vita, tra sagome della porta accanto, sconosciuti da riconoscere e conoscenti da scoprire…
In Francia, questa ragazza dal grande cuore ha scatenato un successo strepitoso (uno dei tanti successi autoctoni della stagione francese), non senza suscitare i grigi brontolii d’una critica incapace di dismettere anche solo per un attimo gli affilati strumenti ideologici, con in prima fila gli amici di “Les Inrockuptibles” pronti a tacciare Jeunet di “lepenismo” per aver mostrato una città tanto antiproblematica e irreale da apparire quasi sotto vetro. In realtà, ci sarebbe forse da chiedersi quanto sia aumentato l’innegabile puzzo di questi nostri fetidi tempi per farci arricciare il naso tanto da non saper più riconoscere la piccola e innocua fragranza di un pasticcino come questo…
Jeunet, del resto, con questa sua fiaba pre-metropolitana e post-rionale sembra quasi materializzare l’idea sempre più necessaria di uno spazio cittadino rivivibile come luogo di emozioni, come a sancire il diritto dimenticato di incarnare nel corpo del quartiere, fatto di mattoni piuttosto che di cemento armato, l’identità di una affabulazione quotidiana in cui sia possibile riconoscere antiche vicinanze (e il confronto col quasi osceno Belphegor di Salomé è in questo senso sintomatico, proprio nella misura in cui il più grande fallimento di quel film consisteva nell’incapacità di tenere insieme la Parigi di ieri con quella di oggi, pur in un set quanto mai emblematico come il Louvre). Amélie, insomma, si propone come depositaria di un “destino” (di “fableux destin” si parla in effetti nel titolo originale) in cui la magia dell’irrazionale si fa spazio nell’intreccio quotidiano di eventi e situazioni, corpi e figure: da dietro il bancone del bar favorisce l’amore tra la cassiera e un cliente brontolone; in casa aiuta il vecchio padre a superare la tristezza per la morte della moglie; nel palazzo aiuta un anziano vicino a sognare; alla stazione della metropolitana vive e risolve l’inquietante mistero di un “fantasma” la cui unica occupazione sembra esser quella di disseminare le sue foto-tessera di box in box; al mercato offre dignità al garzone di bottega vessato dall’odioso padrone; nel suo cuore scopre, conquista e vive l’amore per un ometto (è Mathieu Kassovitz) che fa collezione di foto-tessera raccolte nella spazzatura…
E se Jeunet ritrova la vischiosità umana che, in chiave più grottescamente cupa e inquietante, era appartenuta al condominio del sovramodulato Delicatessen, da lui diretto dieci anni fa assieme a Marc Caro, lo fa meno meccanicamente, inventandosi, a partire da un apparato immaginifico e caratteriale ben codificato, tutto un fragrante universo in cui luoghi, volti, situazioni s’inscrivono in una sfera affabulatoria divertente e affascinante, al termine della quale c’è sostanzialmente un piacere del narrare incarnato nelle gesta della gentile eroina.
Può infastidire, certo, il sovrapprezzo formalistico che la messa in scena della fiaba contemporanea ci chiede di pagare: tutto un apparato di ghirigori stilistici che tendono a deformare il piano della realtà e a rendere ridondante ed effettistico il dispositivo espressivo e figurativo del film. Ma dal lato opposto c’è l’innegabile capacità di Jeunet di tenere non solo il ritmo narrativo (poca cosa serebbe stata, avendo per le mani una storia e personaggi come questi), ma soprattutto il tono equilibristico della rappresentazione. E’ così che la tristezza si anima di fantasia, il mistero di magia, il rancore di allegria, la noia di speranza… E soprattutto il percorso di crescita di questo piccolo personaggio segue la traiettoria di una coerente adesione alle ragioni fantasmatiche della realtà, piuttosto che a quelle fenomenologiche. Il rapporto col testo, d’altronde, resta fondativo: Jeunet enfatizza la narratività della voce off, riconosce dignità alla frontalità che, di parentesi in parentesi, squarcia il tessuto diegetico, rendendo plausibili accelerazioni e grottesche mutazioni di prospettiva. Così come l’accumulo di situazioni e personaggi che tende a ingolfare le due ore del film, si traduce in una composizione che aspira all’ordine, e lo raggiunge. Sempre a patto che si abbia voglia di togliere il freno a mano e lasciarsi andare, leggeri, all’ebbrezza.

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Titolo originale: Le fabuleux destìn d’Amélie Poulain
Regia: Jean-Pierre Jeunet
Interpreti: Audrey Tautou, Mathieu Kassovitz, Rufus, Dominique Pinon, Yolande Moreau, Arthus de Penguern, Urbain Cancellier
Distribuzione: Bim
Durata: 122′
Origine: Francia, 2001

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.6

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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