American Factory, di Julia Reichert e Steven Bognar

Cosa succede se un miliardario cinese rileva una storica fabbrica in Ohio? A più di dieci anni dalla chiusura il film torna a raccontarci dei suoi operai. Candidato agli #Oscars2020. Su Netflix

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«Non si può mangiare né bere per otto ore di fila e neppure fare l’amore. La sola cosa che si può fare per otto ore è lavorare. Ed è questa la ragione per cui gli esseri umani rendono così tristi ed infelici se stessi e gli altri

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Questo celebre aforisma di William Faulkner fa da epigrafe al monumentale Working, testo dello storico e sociologo americano Studs Terkel che raccoglie circa ottocento pagine di fonti orali sul lavoro e sulle condizioni di violenza – «nello spirito come nel corpo» cui sono sottoposti quotidianamente i lavoratori, con poche eccezioni.

Sembra partire ancora una volta da qui Julia Reichert, regista che in più di cinquant’anni di attività ha raccontato le lotte delle femministe, la storia del partito comunista e le battaglie dei lavoratori e delle lavoratrici per la conquista d’un salario e d’una vita degna. “We want bread but we want roses too” cantavano i sindacalisti inglesi dall’altra parte dell’Oceano, e lei, figlia di uno union man, dimostra di tenere bene a mente questo motto, nel tentativo, forse, di insegnarlo ai suoi spettatori, restando sempre fedele ad un marxismo profondamente umanista che contraddistingue tutte le sue opere: da Union Maids a Seeing Red, da The Last Truck fino ad arrivare, in tempi recentissimi, ad American Factory, questo doppio fil rouge di attenzione ai «gender and working class issues» lega i suoi documentari.

Il suo talento è stato presto riconosciuto ma questo 2019 appena concluso è stato per lei particolarmente ricco di riconoscimenti: dal 30 maggio all’8 giugno il MoMa di New York le ha dedicato una retrospettiva organizzata dal Wexner Center for the Arts della Ohio State University. Poi c’è stata la vittoria come miglior regia Doc al Sundance, il premio alla carriera ai festival Full Frame e Hot Doc, ed è appena stata annunciata la nomination all’Oscar ( ed è la quarta nella sua carriera!) per American Factory – Una fabbrica in Ohio, prodotto dalla Higher Ground Production dei coniugi Obama, in accordo con Netflix.

Diretto assieme al partner Steven Bognar, il documentario è in un certo senso il ‘sequel’ di The Last Truck: closing og a GM Plant, una maxistoria durata più di dieci anni che ha il suo inizio con la chiusura dello storico impianto della General Motors in Ohio.

Quando chiude una fabbrica locale è quasi un lutto cittadino, con la comunità che si ritrova disoccupata. Eppure ecco il ‘miracolo’: un miliardario benefattore (?) cinese, Cao Dewang, atterra negli States pronto a rilevare la fabbrica promettendo di riassumere il personale che la vecchia amministrazione aveva mandato a casa, integrandolo con nuove leve in arrivo dalla Cina. Il sogno è di creare un locus di lavoro amoenus, efficiente e transnazionale, un melting pot funzionale: un ponte – fatto di lavoro – tra due culture.

Ma è effettivamente possibile questo capitalismo gentile e multietnico, che si fregia di portare benessere e integrazione?

La prima mezz’ora del film sembra offrirci una confortevole risposta affermativa, ottimista, poi lo specchio inizia a mostrare le prime crepe. Lo sguardo silenzioso ma attentissimo di Reichert e Bognar, che ben conoscono l’universo della fabbrica, ci restituisce via via una realtà ben più complessa e grottesca.

Sin dalle sue origini il cinema ha messo sul grande schermo il lavoro, da Chaplin a Dziga Vertov, fino al recentissimo Sorry We Missed You di Loach, sono state denunciate le aberrazioni e le violenze del lavorare, si è tentato di incitare il pubblico all’autocoscienza. Ed a proposito di grande cinema e lavoro, in American Factory sembrano riecheggiare le parole che gli operai di Petri ascoltano ogni mattina da un altoparlante in La classe operaia va in paradiso: «Macchina + attenzione = produzione». Anni e luoghi diversi eppure le richieste e i memorandum dall’Alto sembrano esser le stesse: persino Cao Dewang infatti, il padrone modello, esige dai suoi operai un altissimo livello di produzione a cui i “pigri” occidentali non sono abituati, e per farlo vorrebbe un lavoro più automatizzato e più veloce, a costo di rinunciare alla sicurezza e – soprattutto – a molte conquiste che anni di lotte sindacali hanno raggiunto. Il sogno di integrazione tra due culture così diverse resta di fatto impigliato nella rete dei pregiudizi e degli stereotipi, restando così un progetto utopico perennemente ( e impossibilmente) in fieri.

La lezione del cinéma-vérité di Reichert e Bognar è dunque impietosa: il nemico è il Capitale, non importa che sia occidentale o asiatico, perché come disse qualcuno, il capitalismo è un multiforme, è come «La cosa di Carpenter». L’importante è non accettare orwellianamente, in modo inerte, il lavoro.

Questo è quello che ci provano a dire questi due registi, che nonostante un lessico così legato alle lotte del passato ed alla struttura dei sindacati, sembra avere chiaro dove stiamo andando.

Però forse, è necessario ragionare su un nuovo linguaggio.

 

Titolo originale: id.
Regia: Julia Reichert, Steven Bognar
Distribuzione: Netflix
Durata: 110′
Origine: USA, 2019

 

 

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4 (1 voto)
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